16 Giugno 2024 - 05:15
In quel tempo, Gesù diceva (alla folla): «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
(Mc 4,26-34)
In questi tempi sentir parlare di ‘regno’ evoca strani pensieri: la mente retrocede ad epoche assolutistiche, in cui i sovrani, non eletti, ma imposti per diritto divino, esercitavano un potere dispotico, autoreferenziale e, spesso, capriccioso. Noi siamo figli e nipoti della Repubblica, conosciamo il prezzo pagato da tanti per una libertà preziosa e mai completamente consolidata e facciamo i conti con quello che Ágnes Heller, filosofa ungherese di origini ebraiche, ebbe a definire un sistema imperfetto, ma senza dubbio migliore degli altri sin qui sperimentati dall’umanità.
Che il Vangelo difenda e proclami un regno è dunque cosa strana e si può generare in chi lo ascolta qualche dissonanza. Ma ogni regno ha un suo territorio da difendere, un suo potere da esercitare, un suo esercito e una sua politica interna ed estera.
E questo? Questo regno di Dio che sarà mai? Paolo, in altro luogo, elenca gli elementi che lo caratterizzano, come se si trattasse degli articoli fondamentali del suo statuto: giustizia, pace e gioia… beh, centra pochissimo con le classiche monarchie cui i libri di storia ci hanno abituato. Quello che il Vangelo ha in testa, è una obbedienza alle dimensioni più profonde e grandi della vita, le stesse che Dio desidera per i suoi figli e ben lontano dalle spire depressive del paternalismo. Gesù immagina un regno tutto speciale, in cui non contano i rapporti di potere, i conflitti di classe o le maggioranze, bensì la pacificazione del cuore dell’uomo, uno spazio e un tempo in cui sia l’amore (di Dio) a dettare le condizioni delle scelte e a superare, o quanto meno a ridiscutere, i confini delle difese, i passaporti e le dogane del ‘mio’ e del ‘tuo’.
Decine di anni fa, nel cuore del secondo dopoguerra, il Concilio Vaticano II aveva ripreso la categoria del regno chiedendosi dove fosse, in quale chiesa albergasse, chi ne potesse rivendicare pienamente il controllo o la competenza, e se ne è uscito con una immagine straordinaria, che in filigrana fa pensare alle metafore naturalistiche dei Vangeli: il Regno è come in germe e inizio posto nelle comunità cristiane, si diffonde senza che sia possibile definirne politicamente e militarmente i confini, e non esiste nessuno che lo possa gelosamente adeguare e possedere.
Il regno di Dio lo si può solo attendere, costruire, servire, amare, proprio in consonanza con le sue leggi fondamentali. Non sarà mai una ‘cosa’ su cui mettere le mani. Sarà piuttosto una mentalità, un modo di vedere e cogliere la vita secondo gli occhi e il cuore di Dio. E proprio in ragione di questo carattere sfuggente, dinamico, sfumato e potente al tempo stesso del regno che è l’amore di Dio, ben si capisce perché Gesù ne parli solo in parabole. La parabola è un genere letterario avvincente: evoca, solleva interrogativi, ha un andamento paradossale, non si presta ad una traduzione solo razionale. Esattamente come il Regno: nessuno può dire eccolo qui o eccolo là, perché lo Spirito agisce secondo libertà e sovranità, altro che filo spinato, muri e confini identitari.
Ed anche le Chiese, pagando il prezzo di una fatica quasi infinita, hanno colto questa sottile e grandiosa caratteristica. Il suo silenzio ha causato morte e distruzione; la sua chiarificazione evangelica, se non ha rimarginato magicamente le ferite delle divisioni tra le chiese, ha comunque disarmato la persecuzione, ridotto l’astio, prosciugato il rancore di chi vuole tutto per sé e vede nell’altro solo l’eretico e il miscredente in cattiva fede. Un regno raccontato in parabole è un regno sano, che non è mai tronfio e pago di sé, ma si muove, si spande e cerca di installarsi, liberandoli, nei cuori di quanti prendono sul serio la vita e non la barattano con forme di potere che surroga solo la debolezza. In più, nel Vangelo che oggi giustifica l’Eucaristia delle comunità cristiane, si dice che lo stesso regno di Dio avanza senza che gli uomini ne possano contrastare il successo: paradosso e speranza si mescolano ed oggi in particolare, a valle di un G7 e dentro mucchi di tensioni, guerre, povertà e ingiustizie, quel paradosso e quella speranza smuovono e inducono a prendere posizione.
Per il Vangelo c’è una spontaneità del bene che nessuno può fermare, come raccontano il dramma dei martiri e la tenacia di chi sa vivere per gli altri. Poco? Tanto? Ma, appunto, il regno non è questione di cibo o di bevanda, non se ne dà notizia nei libri di storia, perché è la storia stessa, la vera storia.
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