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IL COMMENTO AL VANGELO

Questo pane è la legge suprema. È il segno che non teme confronti. È l’essenza stessa del Vangelo

Nella teologia cristiana il criterio del simbolico, oggi troppo spesso degradato a “finzione”, è stato per secoli un’utile categoria per leggere le intenzioni di Gesù nell’ultima cena

Don Paolo Arienti

02 Giugno 2024 - 05:05

Questo pane è la legge suprema. È il segno che non teme confronti. È l’essenza stessa del Vangelo

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».

Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

(Mc 14,12-16.22-26)

I simboli sono cosa seria. La vita umana è, nella sua ricerca di senso e di significati, tenacemente ancorata a cose che sanno esprimere una profondità di cui, prima o poi, tutti abbiamo bisogno. Anche oltre le religioni codificate, come insegnano secoli di cultura umana.

Chi di noi non ha mai decifrato la potenza di un bacio? Oppure, nel dramma della violenza, capito dal tono di una voce che si stava consumando un tradimento? Oppure ancora che dentro il tessuto di una bandiera si nascondeva il sapore di casa? Questa è la forza del simbolo: indicare, esprimere, raccontare, rendere accessibile, svelare. Come e meglio di un iceberg, che rende visibile ciò che nella sua massa incredibilmente discriminante sta sotto, come ha fatto tragica esperienza il celebre Titanic.

Nella teologia cristiana il criterio del simbolico, oggi troppo spesso degradato a “finzione” o a mero cartello stradale, è stato per secoli un’utile categoria per leggere le intenzioni di Gesù nell’ultima cena: lasciare a quanti nel tempo sarebbero diventati cristiani un segno espressivo dell’intera sua vita, una “cosa” nella quale sarebbe stato possibile vedere rispecchiato tutto un uomo, con le scelte qualificanti che lo avrebbero portato a destinare la sua vita (e la sua morte), come si fa con il pane. “Fate questo in memoria di me” è forse uno dei passaggi più famosi dell’intero Nuovo Testamento. Gesù ha scelto di “farsi mangiare”, di essere quel pane vivo che nutre di comunione gli esseri umani, orientando in modo irreversibile i caratteri di una religione stranissima, in cui sarebbe toccato a Dio, per sua stessa scelta, spezzare la vita, condividerla, superare le maglie strettissime del male. Gesù ha scelto la via dell’Eucaristia.

La festa del Corpus Domini, nata in epoca medievale con il preciso scopo di custodire una presenza reale di Gesù nel sacramento, dopo l’epoca d’oro in cui proprio il simbolo sembrava promettente e non faceva eccessivo problema, richiama a quel pane, anzi è quel pane. Il pane della cena finale in cui si è giocato il destino ultimo di Cristo: una cena che si è dischiusa poi su di un giardino animato da tinte fosche, caricato del sonno dei discepoli più fidati e squarciato solo dalle torce di soldati guidati dal traditore.

Nella storia tutte le Comunità cristiane di ogni spazio e tempo sono rimaste fedeli al senso di quel gesto finale, in cui il Signore caricava tutto lo spessore del suo essere. Le chiese da sempre custodiscono nel loro centro focale un altare che in realtà è una tavola. Su di essa si offre un sacrificio che in realtà non sono gli uomini a presentare alla divinità, ma è Dio stesso a preparare, come è accaduto nella misteriosa consegna del Figlio, perché si realizzasse una alleanza vitale con una umanità finalmente riconciliata. Un sacrificio semplice, essenziale, che non teme di valere poco o nulla per la logica trasformante e performante degli uomini che badano sovente solo al grande, al costoso, al sensazionale. Qui c’è il semplice per eccellenza: un pezzo di pane intinto in un poco di vino, perché nulla più del pane, allora come ora, potrebbe esprimere la condivisione universale; e perché nulla come il vino, allora come ora, potrebbe narrare di una trasformazione che si fa dono e di una gioia che va oltre i meccanismi della mercatura.

Quel pane costituisce davvero un simbolo straordinario, ovvero una “cosa” carica di senso, una vera e propria sintesi spalancata sulla vita di Gesù e riconsegnata, come compito, a chi vuole essere almeno un po’ come lui. Il pane è prodotto perché sia mangiato, perché nutra. Così è di questo pane: il suo scopo è nutrire, rinsaldare, generare vita donata. Senza copiare alcuna logica mondana: non quella economica, non quella del sensazionale, non quella del potere. E tutte le volte che una grande chiesa o una piccola comunità ecclesiale rimuove il vincolo di questo segno, cerca altri tesori o lo sostituisce con surrogati terreni (il potere anche religioso o l’imposizione violenta della verità…), accadono guai devastanti, perché il bene si perverte in male. Condizione nota al cuore dell’uomo in tutte le epoche e che nessun Dio ha mai guarito con un colpo di spugna.
Questo pane è la legge suprema. È il segno che non teme confronti. È l’essenza stessa del Vangelo.

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