14 Settembre 2022 - 05:05
CREMONA - Usa l’auto di papà Raoul, tiene nel vano portaoggetti la sua pipa «per sentirne l’odore», va nel suo casotto-rifugio lungo il fiume e gli parla ancora: Mirko Casadei ha un imponente patrimonio storico, musicale e degli affetti da preservare. Un fenomeno, quello del liscio, che potrebbe addirittura diventare «Patrimonio immateriale dell’umanità» dell’Unesco. Si racconta e racconta suo padre, il mitico inventore del liscio nel libro «Il figlio del re», scritto con il cantautore Zibba, conversando con Paolo Gualandris nella videorubrica «Tre minuti un libro» online da oggi sul sito www.laprovinciacr.it. Un fiume di ricordi e aneddoti, i tre minuti in realtà sono molti di più. Ma ne valeva davvero la pena.
Lei ha ereditato dal padre la passione per la musica, per l’organizzazione della musica e la guida dell’orchestra più famosa d’Italia. Che cosa significa essere il figlio del re?
«Il titolo c’era ancora prima di scrivere il libro, un’idea di Zibba, bravissimo cantautore e biografo musicale. Quando me l’ha proposto mi sono illuminato, credo che non ci sia titolo più azzeccato. Raul era effettivamente un re, non solo del liscio e della musica popolare italiana, ma di solarità, ottimismo, buon umore e accoglienza. Un re a capo di un movimento e sotto di lui il suo popolo, i collaboratori, i musicisti, i familiari. Sono stato fortunato a essere suo figlio»
Lei ha raccolto un’eredità molto pesante. Traccia questa continuità della formula Casadei, di una storia che inizia con il prozio Secondo, il padre Raoul e continua con lei. Punto focale è il giorno in cui si inventa il termine ‘liscio’.
«Erano gli anni ’70. L’orchestra in realtà esisteva dal 1928 grazie al mio prozio, il maestro Secondo Casadei. Raoul era il suo delfino e negli anni ’60 ha scritto quasi tutte le sue canzoni. Secondo era già un mito in Romagna, Raoul gli ha portato in dote qualche ingrediente nuovo, avvicinandolo ai giovani con testi che allora erano considerati pop e si incrociavano con le ritmiche e le sonorità del liscio. Alla morte dello zio, Raoul, che era maestro elementare, ha mollato tutto pur essendo al 17º anno di insegnamento. Consideriamo che allora si andava in pensione con 18 anni di attività. Nonostante questo si è dimesso dalla scuola senza sapere dove sarebbe andato a finire con la musica. Ha preso in mano l’orchestra ed è stato subito un successo clamoroso: aveva queste idee nuove, canzoni che piacevano anche alle nuove generazioni, approdò al Festivalbar. In quegli anni il folk romagnolo è diventato nazionale. Il termine liscio per indicarlo è nato in una serata meravigliosa in provincia di Milano, alle Rotonde di Garlasco, nel locale più famoso dell’epoca: era strapieno, c’erano molti giornalisti a vedere questo nuovo fenomeno. Tra gli altri, Rosanna Mani di Sorrisi e canzoni. In un momento bellissimo in cui le coppie che si baciano, la gente ballava, gli uomini prendevano cocktail al bar Raoul disse ai suoi ‘fila tutto liscio come l’olio’.. e subito dopo urlò nel microfono ‘vai col liscio!’. Sorrisi e canzoni uscì con lo strillo di copertina ‘È nato il liscio’. Grazie a tale fermento che diventava un po’ come una valanga, questa accezione del termine è entrata addirittura a far parte del vocabolario della lingua italiana».
Il liscio ha conquistato il mondo, tanto che ‘Romagna mia’, canzone cult di Casadei è stata cantata dei Deep Purple e perfino da un Papa, Giovanni Paolo II. È la conferma della necessità di andare oltre il genere.
«Stiamo facendo proprio questa operazione da diversi anni. In realtà aveva già cominciato Raul e noi ora proseguiamo, tanto è vero che sono direttore artistico del festival Balamondo: in questi giorni abbiamo avuto qui da noi in Romagna, con piazze stracolme di gente, ad esempio Max Gazzè che ha cantato Romagna mia, Ciao ciao mare, Romagna sangiovese. Ci sono stati la Banda Bardot, Toquinho... In questi anni abbiamo collaborato con Goran Bregovic, Gloria Gaynor, Simone Cristicchi, Enrico Ruggeri. L’idea è quella di sottolineare che il liscio non è, come qualcuno pensa, musica figlia di un Dio minore, ma musica popolare, cioè cultura di un territorio. Un po’ come il tango in Argentina, il country in America, il samba in Brasile, il reggae in Giamaica. Il liscio è diventato a tutti gli effetti il ballo italiano cantato e suonato il tutto mondo. Proprio in questi giorni la Regione Emilia-Romagna ha iniziato le pratiche per farlo diventare il patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco. Sarebbe fantastico, un progetto che inizialmente mi sembrava quasi impossibile si fa strada».
Il vostro pubblico capisce la svolta? Chi vince tra tradizionalisti e innovatori?
«Questa è la domanda delle domande. Il mio scopo è che il liscio, le canzoni di Raoul, le nostre canzoni, rimangano per sempre, anche evolvendosi. Non voglio che la nostra musica diventi come un’opera d’arte chiusa in un museo: magnifica, perfetta, ma vista da pochi. Il nostro scopo è fare cose nuove ma anche tramandare queste canzoni storiche alle nuove generazioni e a chi apprezza altri generi. In questi anni abbiamo collaborato con jazzisti come Paolo Fresu, ad esempio, con Fabrizio Bosso, con musicisti che magari io pensavo non avrebbero neanche accettato l’invito. E invece l’hanno fatto di buon grado perché hanno sottolineato anche loro che questa musica è di grande importanza e perché è formativa».
Si pensa normalmente che il liscio sia solo musica da ballo, di allegria. In realtà sia Raoul che lei scrivete testi con un significato sociale, se non addirittura politico.
«Nel repertorio di Raoul ci sono testi fantastici, che parlano di temi profondi. Come quello dell’immigrazione. Raoul la cantava riferendosi alla gente che lasciava l’Italia per andare a cercare fortuna ma già con il pensiero al giorno del ritorno. I testi sono sempre stati importanti. Ai miei concerti faccio un momento acustico in cui con una chitarra e una fisarmonica faccio ascoltare bene i testi perché quando si balla e ci si diverte, si rischia di perderne il senso. Invece queste sono canzoni che raccontano un territorio, sua gente. Il valore aggiunto dei Casadei è sempre stato questo».
Non è solo una questione di testi, nel libro racconta anche delle scelte molto moderne fatte da Raoul, nella gestione del gruppo, della cooperativa dei musicisti e degli stipendi tutti uguali: è un Raoul che non ti aspetti.
«Raoul è stato sicuramente un genio, era imprenditore di se stesso ma anche un visionario, vedeva una cosa e la realizzava perché lui era talmente bravo a trasmettere questa caparbietà che riusciva a realizzare anche l’impossibile. Faccio un esempio. Negli anni ’90 un nostro percussionista e trombettista brasiliano propose una canzoncina un po’ sudamericana. Raoul l’ascoltò, ci pensò su un po’ e disse: bella, voglio farla con Tito Puente. Stiamo parlando del re della musica latina mondiale, un mito. Si sono messi tutti a ridere, io stesso ero un po’ incerto. Lo scetticismo che sentiva intorno a sé l’hanno caricato ancor di più: ha chiamato il nostro impresario gli ha ordinato di contattare Puente. Dopo una settimana eravamo a New York con lui incidere la canzone. Lui veramente aveva sempre questa grande visione. Ha realizzato cose incredibili come la Cà del liscio, un tempio della musica da 10 mila persone dove Raoul faceva venire non solo la sua orchestra e le altre del liscio, ma ospitava Ray Charles, Ella Fitzgerald i Platters. E poi, più avanti, i Kiss nel per il loro primo concerto italiano, e Vasco Rossi, Pat Metheny, artisti incredibili, italiani e internazionali. È stato un grande successo artistico anche se un po’ meno a livello economico perché la gestione era veramente onerosa. Più avanti si è inventato la Nave del sole, discoteca galleggiante che girava per l’Adriatico portando in giro tantissima gente, dove si mangiava il pesce fresco pescato da noi si beveva il vino si ballava con la musica di Casadei. Lui aveva tutto in testa, fin da quando alla morte di Secondo, la prima cosa che fece fu raddoppiare a tutti lo stipendio ‘perché nel giro di un anno faremo successo’. Quasi tutti i musicisti non gli hanno creduto e ne se sono andati. E invece dopo un anno eravamo al Festivalbar e fu un successo clamoroso. Così come aveva deciso che 10 anni dopo avrebbe smesso e si sarebbe ritirato. E lo fece nel 1980, nel pieno del successo dopo aver fatto il Festival di Sanremo, il Festivalbar, Un disco per l’estate, il Cantagiro. Smise perché aveva deciso che sarebbe tornato vicino alla sua famiglia e si sarebbe goduto i suoi hobby, la sua gente».
Nel libro c’è spazio anche per il Raoul privato. Quello della capanna sul fiume dove andava a fumare la pipa a pescare e a comporre.
«Sì quello è un luogo magico dove ancora ne sento la presenza. Ho ereditato la sua macchina e ho lasciato lì tutte le sue cose, le chiavi appese allo specchietto retrovisore, la pipa nel cruscotto... Così sento il profumo di Raoul. E torno spesso al fiume Rubicone. Era il suo posto e lì andavo a trovarlo e stare con lui. Lo faccio tuttora e me lo immagino. Prima c’era fisicamente, parlavamo del più e del meno, della pesca, di cose personali, del lavoro. Era un bel momento, molto intimo, tutto nostro» .
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