PENSIERI LIBERI
Dicembre 2024
Caro bambino di adesso, dato che è quasi il momento di scrivere la tua lettera a Santa Lucia, magari sei curioso di sapere cosa le chiedeva un bambino di ieri. Va beh, diciamo di ieri l’altro. I miei non saranno consigli su cosa scrivere (a proposito, a Santa Lucia si manda ancora una lettera di quelle di carta che si imbucano, o magari una iméil o un uotsàp con la faccina speranzosa?) dato che i giocattoli come quelli con cui giocavamo noi adesso sono roba da mercatino dell’antiquariato, e se cerchi un soldatino su ibéi è capace di costare come una statuetta di Capodimonte; mi piacerebbe darti un’idea di come si giocava ai miei tempi (oddìo lo sapevo che sarebbe saltata fuori questa espressione da vecchio, ma speravo un po’ più in là).
Prima di mettermi a scrivere ho frugato nel cassetto dell’armadio dove mia mamma tiene le reliquie di quando i suoi figli erano bambini, chissà che fra vecchie pagelle e vecchi temi (ci credi che il maestro Taino in seconda ci faceva fare i temi e siamo sopravvissuti?) saltasse fuori anche una lettera mia o di mio fratello a Santa Lucia, una di quelle che – si è poi scoperto – venivano regolarmente intercettate dal controspionaggio genitoriale invece di essere recapitate alla destinataria. E il bello è che gli autori dell’intercettazione esaudivano con scrupolo gli esosi desideri del mittente: un po’ per farlo contento, un po’ per non farsi scoprire. Il tutto per dire che le intercettazioni mica se le sono inventate adesso. Ma, come direbbe il maestro Taino, sto andando fuori tema.
Peccato che non l’ho trovata, una di quelle letterine, mi sarebbe piaciuto confrontarla con quella di un bambino di adesso. Se ci fosse un’università abbastanza strampalata da avere una cattedra di sociologia comparata del giocattolo, sarebbe roba da tesi di laurea. Guarda che ci sarebbe da divertirsi.
O da avvilirsi? Non lo saprò mai, perché quelle letterine sono state fatte sparire dal suddetto controspionaggio (secondo me in un modo o nell’altro c’entra il Mossad). Quindi mi tocca andare a memoria. Nella quale campeggiano in primissimo piano i soldatini. Scommetto che se te lo chiedo a bruciapelo, cos’è un soldatino, mi guardi come se ti chiedessi cos’era il Meccano. Dunque, dicevasi soldatino una figuretta tridimensionale (ce n’erano anche a due dimensioni, schiacciati come se fossero passati in quelle macchine per fare la pasta in casa, erano fatti di stagno ma figurati sono più vecchi ancora di me) di gomma o di plastica, alta fra cinque e sette centimetri, tenuta in piedi da una stampella e raffigurante un guerriero in posa più o meno bellicosa.
Ce n’erano di tutti i tipi: commandos — di quelli che invidiavo a Damiano quando andavo a giocare da lui — e crociati, moschettieri e marziani, ma soprattutto indiani e caubòi. Erano loro e le loro avventure la spina dorsale dei miei pomeriggi, abitavo in via Dante 33 ma vivevo in via Colt 45, fra la porta del tinello e il West. Da una parte i pellerossa (chiedo scusa alla tua sensibilità etnica se non li chiamo Nativi, ma se a suo tempo qualcuno avesse dato del Nativo a Nuvola Rossa avrebbe rischiato lo scalpo per direttissima) e dall’altra sceriffi, banditi, soldati blu e Giubbe Rosse.
A volte qualche bandolero messicano e qualche sudista faceva comunella con gli indiani in odio agli iènki. Poi nascevano le alleanze più improbabili, il marine col mitra si trovava a battersi insieme al mamelucco con la scimitarra, e nessuno dei due faceva una piega. Eravamo già multietnici senza saperlo. Quanto all’arruolamento nei miei eserciti, non facevo storie: prendevo di tutto. A cominciare dai soldatini più a buon mercato, quelli di plastica grigia che si compravano nella tabaccheria di un signore che tutti chiamavano Muffa in piazza Fiume, in bustine con dentro anche una lastrina di cicca tipo le Brooklyn, la gomma del ponte; e stava all’umore del tabaccaio lasciarmi o no tastare con le dita la busta per capire se dentro c’era un soldatino che non avevo.
Poi c’erano quelli della Bomboniera di Ennio Rota che era amico di mio papà e aveva anche i soldatini piccoli, quelli della Airfix scala uno a settantadue; quelli dell’Upim erano smontabili, potevi farci dei frankenstein con la testa e le gambe di indiano e il tronco e la pistola da caubòi; quelli di Panizza costavano caro, erano il premio se non avevo fatto troppe storie dal dentista.
I fuoriclasse erano i garibaldini con la stampella a forma di Italia che la sorella di mio nonno mi portava da Dosolo dove faceva la maestra; bellissimi ma un po’ fragili, cascavano al primo colpo.
Gli indiani spuntavano dalla spalliera del divano per assaltare il fortino piazzato in mezzo al tappeto, o si appostavano in cima alla pila dei volumi del Conoscere, l’enciclopedia, per fare imboscate. Le battaglie duravano anche più di un giorno, a seconda del tempo che riuscivo a infilare fra i compiti e la tivù dei ragazzi: nel caso di battaglia interrotta e rinviata al giorno dopo, entrava in vigore per la mamma il divieto di fare i mestieri. E non ci crederai, ma ogni soldatino aveva la sua personalità: c’era un indiano col tomahawk (ma noi la scure la chiamavamo tomawak) che si è guadagnato sul campo il nome di Cavallo Pazzo, perché era durissimo da buttare giù.
Dalla parte dei ladri di grasso, il nome che gli indiani davano ai visi pallidi, quello che vendeva più cara la pelle era un soldatino blu che spara da coricato; ero riuscito a farmelo dare da Leonardo alla fine di un’estenuante trattativa da calciomercato. Se fai fatica a crederci, ne farai ancora di più a credere a quello che mi raccontava lo zio Gigi: che loro di giorno fanno il loro lavoro, stanno fermi immobili e ubbidiscono agli ordini. Di notte però vanno in libera uscita, si sgranchiscono dalla posa tenuta per tutto il giorno, si tolgono la polvere dell’ultima battaglia ed escono dalla scatola, facendo un salto al saloon del fortino, facendo il filo alle squaw dell’accampamento o fumandosi un calumet in santa pace con Toro Seduto.
Io non me la bevevo fino in fondo, però un dubbio mi veniva quando mi capitava di trovare un capo indiano con le penne più arruffate di come me le ricordavo, uno sceriffo con la stella storta, il trombettiere del settimo cavalleggeri in groppa a un cavallo nero mentre io avrei giurato che l’avevo messo in sella a un cavallo bianco… Magari ti annoi, dici che è roba vecchia, tu preferisci ‘navigare’. Ma guarda che anch’io navigavo, su baleniere e galeoni, sulle navi dei pirati e sulle canoe dei Cheyenne...
E magari ti diranno che a fare certi giochi poi ci si abitua alla violenza, però è una balla. Io e mio fratello ci tiravamo le frecce con la ventosa, ci sparavamo con le colt e i winchester che ci regalava lo zio Marino che abitava a Canneto e lavorava alla Furga, e quando veniva a trovarci sotto le feste portava pistole ai maschi e bambole alle femmine. Eppure sono un perfetto imbelle. Da soldato ero un alpino così poco credibile che nessun mulo si è mai degnato di mollarmi un calcio. In caso di guerra, l’unico modo per rendermi utile a scopo bellico sarebbe farmi subito prendere prigioniero: con quello che costa mantenermi, manderei in malora il nemico.
Adesso la pianto, che l’ho già fatta fin troppo lunga. Vai a giocare, e gioca come vuoi: l’importante è che usi la tua fantasia, non quella degli altri. Ma se oltre a sfogare un pochino la mia nostalgia ti ho messo un filo di voglia di scoprire una dimensione del gioco che non è più di moda, sono contento; anche perché quel modo di giocare creava un mondo dal quale al momento giusto si usciva perché non faceva prigioniero nessuno, nessuno ci restava intrappolato.
Non faceva mai dimenticare la differenza fra il mondo della fantasia e quello reale, quello dove si spara per finta e quello dove si spara sul serio.
Una differenza che oggi troppo spesso si perde di vista. Però, bambino di adesso, anche se per caso ti ho incuriosito, a Santa Lucia non chiedere soldatini: i negozi di giocattoli — i pochi che ancora resistono — non li vendono più e per portarteli Lucia dovrebbe fare un miracolo. E i miracoli, oggi, non bisogna sprecarli: servono per cose più serie.
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