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PENSIERI LIBERI

Aschedamini: «‘Ok Google’ e ‘Chiama Alexa’. Noi, attaccati alla corrente... »

Viviamo sballottati nel tempo come macchine capaci di stare nel passato e nel futuro, ma forse non nel presente: così ci ritroviamo disumanizzati. E se ci arrestassimo di colpo?

Dicembre 2024

Aschedamini: «‘Ok Google’ e ‘Chiama Alexa’. Noi, attaccati alla corrente... »

Scorriamo in moto perpetuo video, foto, link, articoli, dichiarazioni di guerra e d’amore, cagnolini scodinzolanti e condomini piegati sulle ginocchia da un drone nemico, un gattino che spulcia tra le crocchette. Viviamo connessi alla radio, alla televisione, a Facebook, a TikTok, a Instagram, alle notizie del Tg, alla vita dall’altra parte del globo.

Come una cinepresa in perpetua azione, un proiettore dal rullino di biblica lunghezza. E tutto ciò, bruscamente, si alterna trascinando l’attenzione per territori impervi, esigendo dalla mente un impiego immenso di energie. Come forzare noi stessi ad una tracotanza che gli dei antichi avrebbero senz’altro punito. Viviamo cercando il laccio da tirare per sbrogliare, infine, la matassa: una cultura mondiale di interconnessioni, contatti, distanze di milioni di braccia spezzate da un click.

Viviamo scandendo le ore con la suoneria del cellulare, il fischio di una notifica, la vibrazione del telefono sulla coscia quando il mondo ci raggiunge attraverso le tasche, o le borse a tracolla, la sacca di tela o l’emissario informatico dal nome di Alexa nel proprio soggiorno. OK Google: riproduci, chiama, cerca, ricordami.

E così discendiamo in un vortice che ci conduce per mano: l’inerzia pari solo a quella dello spazio profondo. Gravitiamo intorno ad orbite di fonti di intrattenimento: accendere Netflix, Amazon Prime, Mediaset Infinity, AppleTv o Disney+; addormentarsi recalcitranti tra miscugli di voci e dialoghi serrati, intro senza fine di serie tv, colonne sonore di film, tracce audio di shorts e reel tra Facebook e Instagram.

Viviamo nel Data, nell’euforia della dopamina che ci viene imbustata e ingollata come olio di merluzzo. Sballottati nel tempo, per cui siamo straordinarie macchine capaci di vivere nel passato e nel futuro, ma spesso non nel presente. Viviamo perennemente attaccati alla corrente. Viviamo in attesa di un blackout? Di un blackout spirituale o filosofico? In attesa che la terra si levi da sotto i piedi? Allora cerchiamo un’opera d’arte che ci levi quella terra da sotto i piedi e ci faccia capire che non ne abbiamo bisogno.

Perché qui viviamo disumanizzati, schiavi e parte del dominio, come rondini in migrazione senza meta, coprendo viaggi di siderale dimensione come imbarcazioni dalle vele incessantemente spiegate. E se ci arrestassimo di colpo? Se abitassimo poeticamente il mondo? Abitare poeticamente il mondo potrebbe essere una soluzione per staccare la corrente, o allentare la tensione, far rifiatare le sinapsi, liberare i neurorecettori dal lavoro di cui sono oberati, mattina e sera, notte e giorno, e di nuovo mattina e sera, notte e giorno. Perché abitare poeticamente il mondo significa abitare il mondo umanamente. Questa sopra è una frase di Christian Bobin. Una frase bellissima, piena di speranza e di verità. Il suo significato è molto profondo.

Qual è la vera differenza tra recidere un tronco con un’ascia o con una motosega elettrica? La differenza non sta nel come l’albero viene tagliato, né nel risultato finale dell’azione: in entrambi i casi l’albero frana al suolo, in entrambi i casi è sconfitto. Ma la fatica, il sudore, ecco cosa cambia. È il sudore del boscaiolo che nobilita la vita dell’albero, il rapporto genuino che si instaura tra essi. Tanto sudore avrà versato il boscaiolo, tanto sarà costata la vita dell’albero. Questa è la moneta di scambio. Una parte della mia vita per una parte della tua. Mors tua vita mea. E quindi, abitare poeticamente il mondo significa rendere al tutto che ci circonda lo stesso valore, direttamente proporzionale, che diamo a noi stessi.

Abitare poeticamente il mondo significa fare attenzione quando nei boschi si ode il canto del cuculo, misterioso frequentatore delle frasche, perché si possa apprezzare il valore del momento. Un episodio simile lo si può trovare nelle memorie di Herman Hesse, nei volumi ‘Il Canto degli Alberi’ e ‘Le Stagioni’. Quando Hesse confessa di scandire la sua vita con i rintocchi del canto di quel volatile inafferrabile. Ecco: vivere con il cervello attaccato alla corrente significa anche limare il livello dell’attenzione, la soglia minima richiesta sino a farle raggiungere una spanna di pochi secondi. Cosicché esistiamo solo per manciate di secondi alla volta e poi via, pouf!, spariti. Come se la nostra attenzione fosse un brevissimo spazio pulito circondato da confusione e nebbia.

E allora dovremmo ritrovare la presenza di noi, per apprezzarci, per apprezzare gli altri, per affidarci ciecamente al rapporto tra l’Io e il Tu. Per tornare ad esistere sotto forma di soggetti e non di oggetti, di consumatori o ingranaggi. Per poter dare del tu all’albero che si abbatte, alla poesia che si scrive, al grano che si coltiva.

Altrimenti? Altrimenti saremo costretti a continuare su questa strada: cervello collegato alla presa della corrente, fiumi di dopamina che annaffiano l’organismo, musichette ed effetti sonori che lo stordiscono, il collo che si piega verso il cellulare, le iridi che rincorrono i carnevali di pixels del multischermo. E continueremmo nella caduta del tempo, senza freno alcuno. Ciò che rende così pericoloso l’uomo per la sua medesima persona è l’incomprensione delle sue contraddizioni. E del resto, la società esiste sin da quando l’uomo ha trovato ristoro nelle caverne, in forma rudimentale, certo. Eppure, ciò conferma quanto sia insito in noi stessi erigere paletti, stabilire ruoli, incanalare e ingabbiare, razionalizzare per principio di economia. In sintesi: dominare. Ma lo stato di natura è un falso, perché per l’uomo non esiste alcuno stato di natura senza l’altro, il prossimo. Proprio per questo bisogna staccare il cervello dalla presa.

Staccare il cervello dalla presa e guardarsi intorno. Ovviamente, questo sarà un problema di noi nativi digitali: imparare a discernere il potere dal posseduto. E come per ogni grande conquista dell’uomo, non sarà immediato riuscire a usarla a nostro favore. Ma non abbiamo soluzione: come il fuoco che brucia e scalda, sta a noi decidere cosa farne, alimentare un falò o appiccare un incendio. Prendere o lasciare. Bianco o nero. Il grigio non esiste. Non qui. Qui, dobbiamo rimanere con i piedi ben saldi alla terra. Dove sta l’esistenza.