21 Novembre 2023 - 05:15
Il rischio che sta correndo oggi tutto il Paese è quello di trovarsi nei prossimi anni e decenni senza le risorse più preziose, costituite da giovani ben preparati, con le competenze necessarie per alimentare i processi di sviluppo competitivo dell’Italia. Allora perché fino ad ora non ce ne siamo preoccupati?
Ci sono almeno quattro fattori che, in combinazione tra loro, hanno determinato uno squilibrio tra il numero dei giovani entrati nel mercato del lavoro in questo secolo rispetto alla capacità del sistema produttivo di includerli efficacemente e di valorizzarli adeguatamente.
In primo luogo, l’accentuata e persistente denatalità sta facendo sentire i suoi effetti sulle coorti di trentenni, quarantenni e cinquantenni che hanno dato solidità alla vita attiva del Paese. Nel decennio scorso le fasce d’età 50-59 e 40-49 presentavano ciascuna un ammontare rimasto robusto (abbondantemente superiore i 9 milioni), mentre quella dai 30 ai 39 anni risultava crollata sotto i 7 milioni. Nei prossimi dieci anni vedremo una caduta analoga dei quarantenni e successivamente dei cinquantenni. Nel frattempo però, i trentenni scenderanno ulteriormente (gli attuali 20-29enni arrivano a malapena a 6 milioni). Per lunga parte della storia del nostro Paese le solide coorti di trentenni, quarantenni e cinquantenni, hanno dato solidità alla vita del Paese, garantendo nel complesso – pur in presenza di limiti e contraddizioni nella formazione e valorizzazione del capitale umano – una sostanziale tenuta economica e sociale.
Il secondo fattore va ricondotto al percorso di basso sviluppo. La prima decade del secolo è stata indicata come ‘decennio perduto’ per il rallentamento della crescita del prodotto interno lordo rispetto ai decenni passati e la perdita di competitività rispetto alle altre economie avanzate.
Il periodo 2008-13 è stato poi segnato dalla grande recessione che ha colpito in modo particolare le opportunità di lavoro dei nuovi entranti, ovvero i giovani del Millennio.
Un terzo motivo può essere attribuito alla fase di sensibile aumento dell’occupazione nella fascia più anziana della forza lavoro. L’invecchiamento della popolazione presenta a chi governa le economie mature avanzate a porsi la questione di come affrontare i costi crescenti associati alle pensioni, alla salute e all’assistenza sociale. Uno dei modi principali per farlo è incoraggiare le coorti più mature (over 55) a rimanere più a lungo nel mercato del lavoro. In Italia ciò è stato fatto spostando per legge in avanti l’età di pensionamento, ma con basso sviluppo degli strumenti di Age management, ovvero delle politiche a supporto della lunga vita attiva nelle aziende e organizzazioni. La combinazione tra invecchiamento demografico, posticipazione del ritiro dal lavoro, bassa crescita economica e basso sviluppo dei settori più innovativi e competitivi, ha portato ad un aumento dell’occupazione degli over 55 senza espansione generale delle opportunità di nuova occupazione.
Ovvero, la torta non si è allargata e le porzioni sono andate sempre più a favore della fascia più matura della forza lavoro. Di fatto la politica si è accontentata di ridurre i costi dell’invecchiamento senza favorire un salto di qualità delle condizioni di lunga vita attiva nel mondo del lavoro, da un lato, e senza affrontare le conseguenze del ‘degiovanimento’, dall’altro. Va precisato, per altro, che l’aumento dell’occupazione in età matura non va automaticamente a scapito dell’occupazione giovanile, ma ciò può avvenire in alcune circostanze e in particolare in contesti di bassa crescita economica e in settori poco dinamici e competitivi.
L’Italia è più vicina a questa seconda situazione, mentre la Germania ha visto crescere nello stesso periodo l’occupazione sia giovanile che matura, attraendo inoltre giovani qualificati da altri Paesi.
La Germania, quindi, ha risposto all’invecchiamento della popolazione contrastando il processo di degiovanimento assieme al rafforzamento delle opportunità di una lunga vita attiva.
Il quarto fattore che, in combinazione con i precedenti, ha contribuito al surplus di giovani italiani rispetto alla capacità di inclusione di nuove energie ed intelligenze con ruolo attivo nei processi di sviluppo del Paese, è da attribuire alle carenze e inefficienze nei servizi che si occupano dell’incontro tra domande e offerta. Un persistente basso investimento in politiche attive ha determinato un deficit di strumenti adeguati – all’altezza delle economie più avanzate e alle sfide che pone questo secolo – per orientare e supportare le nuove generazioni: nella formazione delle competenze richieste; nella ricerca di lavoro; nella realizzazione armonizzata dei progetti professionali e di vita.
In un mondo sempre più complesso e in rapido mutamento, con un mercato sempre più dinamico, i giovani italiani si sono trovati abbandonati a loro stessi e all’aiuto delle famiglie, con alto rischio di perdersi nel percorso di transizione scuola-lavoro. Ne è derivato un grande spreco di potenzialità, una dissipazione del capitale umano, un’allocazione non ottimale delle risorse nel mercato del lavoro, oltre che un aumento di disuguaglianze sociali intragenerazionali. Va inoltre considerato che la carenza di prospettive porta i giovani ad andare altrove già nella fase di formazione o a rinunciare ad investire sulla propria istruzione.
Crescita competitiva dell’Italia (combinando tradizione e innovazione nei suoi settori più strategici) e inclusione piena delle nuove generazioni nelle aziende e nelle organizzazioni, vanno considerate due facce della stessa medaglia.
Senza un piano che consenta agli attuali giovani-adulti di diventare parte attiva e qualificata dei processi di crescita del Paese, non solo mancherà l’energia propulsiva nei prossimi dieci anni ma andranno ad accentuarsi squilibri tali da compromettere in modo insanabile il percorso dell’Italia per tutto il resto di questo secolo.
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