30 Giugno 2024 - 05:15
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Mc 5, 21-24.35b-43
Se potessimo leggere tutto d’un fiato i Vangeli, ci accorgeremmo di alcune questioni che spesso sfuggono. In primo luogo, ci renderemmo conto della bellezza complessiva di una narrazione che è innanzitutto un’opera letteraria, ricca di opzioni e fili rossi che un poco alla volta vengono tesi, come accade in qualsiasi costruzione artistica. Ci accorgeremmo anche di una specifica teologia che caratterizza ciascuno dei quattro vangeli ‘canonici’, ovvero quelli che per autorevolezza, equilibrio e diffusione sono stati ritenuti sin dai primi decenni del cristianesimo fondativi della testimonianza apostolica e dunque impiegati, letti e celebrati. Ci renderemmo conto che a volte certi stralci paiono metterci davanti brani fini a se stessi, ma che in realtà sono incastonati in un progetto più grande. Sarebbe utile un esercizio come questo soprattutto con il Vangelo di Marco, in antichità impiegato per la formazione dei catecumeni, ovvero di quanti venivano alla fede dal paganesimo: senza dubbio per la sua concisione, ma anche – e il fatto non è banale! – per le sue scelte teologiche e letterarie.
Marco procede come in due tempi: un primo tempo in cui si mette in scena la predicazione eclatante di Gesù e l’efficacia dei segni che l’accompagnano, dato che il Messia è in mezzo agli uomini, è comparso dal deserto e annuncia il Regno di Dio; ed un secondo tempo in cui i segni prodigiosi si fanno più rarefatti ed anche la fama del taumaturgo flette per lasciare il posto ad un cumulo di domande scomposte, di crisi cui fanno seguito molti abbandoni. Punto di svolta è l’annuncio, quasi alla metà esatta del testo, del dover morire del Messia: e ‘morte’ suona subito come sacrificio supremo, dunque punizione, ed ancora sconfitta. Non sia mai!
Se ci limitassimo alla lettura frettolosa dei primi capitoli, potremmo concludere che i poteri di guarigione di Gesù sono incomprensibili, talmente eccezionali da sfumare o nel ridicolo o nel mitico. In entrambi i casi che ne penserebbe un contemporaneo disilluso? Poco o nulla… e forse derubricherebbe anche questa pagina di Vangelo nel cumulo delle superstizioni che la modernità ha smascherato e superato. Varrebbe davvero la pena interrogare Marco e chiedergli quale valore dà al miracolo e quale sia il segno più grande e definitivo. Ci ritroveremmo in compagnia del Centurione, sotto la croce… posto scomodo per la ragione come per la fede.
Nel frattempo, il lettore contemporaneo, ma anche il credente che oggi si ritrova con la sua comunità a celebrare l’Eucaristia, si immedesima nei personaggi della pericope di Marco: l’emorroissa carica di fede mista a stanchezza; oppure il capo della sinagoga minacciato di una perdita inaccettabile per il cuore di genitore. L’evidenza razionale ci ha insegnato da secoli ad accettare che le cose abbiano un loro ordine naturale e che facciano rimbalzare in modo silenziosamente crudele su di noi la certezza che siamo imperfetti, finiti. Una grande verità, chiara nella sua desolante efficacia.
Eppure, attorno all’esperienza della fede, del guardare oltre, del non chiudersi nel solo orizzonte fisico che si può misurare e comprendere, il Vangelo coagula altri sguardi. Restiamo perplessi e ci chiediamo quale sia il prezzo di questa fede: credere a magie che a volte si innescano e a volte no? O peggio dare credito ad una potenza misteriosa che fa calcoli complessi su fogli segreti?
Della fede, quella più nuda, resta la capacità di resistenza: quella che è stampata sul volto di un anziano o di chi si prende cura tutti i giorni di un disabile. Una caparbietà che non tutti ritengono di possedere o di potersi permettere e che, in buona sostanza, fa appello alla consapevolezza che la vita deve essere buona e che dentro di noi esiste un anelito di bene più forte di ogni sventura.
Il Regno che Gesù vede, serve ed inaugura e che per i Vangeli coincide addirittura con la sua stessa biografia, è questa fede. Che va oltre; e che respira non solo inquinanti, non solo limiti. E come per i personaggi del vangelo di oggi, questa fede si ritroverà solo in cuori umili che non sbandierano magie e non stanno davanti alla sventura con spavalderia. È la saggezza di chi crede contro ogni speranza. Di chi crede ad un oltre che ora, ancora, non vede.
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