13 Febbraio 2024 - 05:25
Se i giovani non sognano, la società muore: così scrive il teologo bergamasco Giuliano Zanchi. Come dargli torto? Molto tempo prima, nella Bibbia, il profeta Gioele metteva in bocca a Dio queste parole: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (Gl 3,1). Frasi inusuali in un tempo come il nostro che, un giorno sì e l’altro pure, mette i giovani perennemente sul banco degli imputati. I casi di stupro e di accoltellamento, gli atti di bullismo e di ordinaria cronaca nera, i fenomeni di dipendenza da alcol e droga… sono la punta dell’iceberg di un malessere diffuso. Il dopo pandemia ha riempito le sale d’aspetto di psicologi e psichiatri addetti agli adolescenti.
E poi c’è l’infinita tiritera, da pensionati impenitenti con il fucile puntato, contro le giovani generazioni che «non hanno voglia». Non hanno voglia di impegnarsi in scelte definitive. Non hanno voglia di lavorare. Non hanno voglia di aspettare il loro turno. Ma si sa, «l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re», sentenziano gli esperti della vita a tavolino. Il giocattolo si è rotto. Almeno quello del rapporto intergenerazionale: si preferiscono le contrapposizioni al prendersi cura. E le conseguenze sono drammatiche. Pochi giorni fa a Rebibbia, ramo femminile, ho ascoltato la storia di Sara, 21 anni, con un passato alle spalle da far rabbrividire.
Le ho letto negli occhi la voglia di riscatto, ma anche la sofferenza di pochi anni che già pesano come un macigno su qualsiasi idea di futuro. Come può una società sognare con lei se il meglio che le si offre è una cella e una manciata di psicofarmaci? Non ci mandano in crisi esistenze così? Il problema è che, usando le immagini di Gioele, gli anziani hanno smesso di sognare e i giovani continuano ad avere visioni. Per quanto li si veda immersi nell’incertezza e nella paura per il futuro, sono molto meglio delle generazioni che li hanno preceduti. Molti di loro si rendono conto di avere ricevuto in eredità una patata bollente: il tessuto sociale sfilacciato, il cambiamento climatico, le questioni ambientali, un’economia basata esclusivamente sul profitto, il lavoro precario, una politica leaderistica e mediocre… Eppure, se si percorre l’Italia troviamo giovani che animano la ricerca, riempiono i social di istanze di giustizia, sfilano per il pianeta, si dimettono da lavori inconsistenti o mal retribuiti, creano nuove forme di partecipazione.
Sono allergici ai percorsi tradizionali, forse anche perché non si fidano più di adulti deludenti, padri e madri senz’anima, poco credibili quando vogliono apparire amiconi. Ecco i giovani odierni: soli nell’incertezza ma generosi se gli si dà fiducia. Provo a guardare dal buco della serratura della vita sociale. L’Italia non è un Paese per giovani. Senza scomodare le inevitabili considerazioni sull’inverno demografico, anche quando le cose si possono scongelare, tutto diventa impossibile. Il caso più eclatante è il tema della cittadinanza ai figli di genitori stranieri, nati e cresciuti nelle nostre città: frequentano scuole italiane e talvolta parlano la lingua molto meglio di tanti nativi.
Se ne parla da trent’anni ma lo ius culturae rimane un tabù. A meno che si tratti di qualche giovane calciatore: il divismo per gli artisti del pallone è così radicato da non far obiezioni. Carta bianca. Il limbo, cancellato dalla teologia, si ripresenta in salsa nazionalista per migliaia di adolescenti stranieri non accompagnati. E si rivede nei percorsi formativi e di inserimento al lavoro. In un mondo dove le competenze e le qualifiche digitali sono sempre più importanti, il paradosso è che lasciamo i giovani, con la loro più facile adattabilità, in stand by. La precarietà protratta nel tempo favorisce fughe all’estero. Si tratta di una emorragia lenta e continua di giovani che se ne vanno per fare esperienze importanti di qualificazione, ma molto più semplicemente per cercare fortuna professionale.
Di norma trovano contratti di lavoro più interessanti, e ciò favorisce l’esodo senza ritorno. Il fenomeno dei Neet, inoltre, che supera in alcuni territori il 30% dei giovani, è una vera e propria piaga. Non riusciamo ad accompagnare gli adolescenti per farli sentire parte di un progetto di democrazia e di economia sostenibile. Si sentono abbandonati e preferiscono il vuoto ad un pieno che sa tanto di trascuratezza. Solo un di più di cura educativa potrà migliorare la situazione. La verità è che abbiamo bisogno dei giovani. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. I giovani possono aiutarci a cambiare mentalità. Noi pensiamo ancora al creato come materiale da utilizzare per fare profitto, risorsa per l’economia. La sensibilità ecologica dei giovani ci aiuta a guardare l’ambiente non come una scenografia che fa da sfondo, ma come una relazione da custodire. La cura per il creato permette di ripensare l’economia, il modello di sviluppo, gli stili di vita, le fonti energetiche, gli spazi di vita e la mobilità. Gli aderenti a Economy of Francesco, ad esempio, si stanno pensando come poeti sociali, capaci di rinnovare l’agricoltura, l’industria, la cooperazione sociale con progetti inclusivi e sostenibili… Ci insegnano che le conversioni avvengono dal basso attraverso scelte coraggiose. Capite perché è urgente l’impegno dei giovani e con i giovani? Nessuno è nato per stare in panchina…
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