01 Ottobre 2023 - 05:00
Alla nostra domanda «I Comuni di Gussola e Torricella del Pizzo, ma anche quelli di San Daniele Po e Pieve d’Olmi, hanno avviato un percorso per arrivare alla fusione. Che cosa ne pensa?», posta davanti all’edicola subito dopo aver acquistato il giornale, un lettore ha risposto con decisione: «Io ero contrario anche alla fusione di Torre de’ Picenardi e Ca’ d’Andrea, la prima ad essere realizzata in provincia. A mio avviso si tratta di procedure che finiscono per favorire il centro più grande, mentre quello più piccolo, abbastanza inevitabilmente, finisce per essere penalizzato». Subito dopo il referendum che ha bocciato l’ipotesi di fusione, un altro si è rammaricato così: «Un vero peccato, dal mio punto di vista. La razionalizzazione delle risorse per i nostri piccoli Comuni è fondamentale, speriamo che possa essere riproposto più avanti». Due posizioni agli antipodi, entrambe legittime e non prive di buone ragioni, che sono la rappresentazione plastica di una situazione di netta contrapposizione rispetto al problema del funzionamento dei piccoli Comuni, dai quali dipende in buona parte la qualità della vita della popolazione. La questione è tornata d’attualità con il referendum di domenica scorsa che ha chiamato al voto i cittadini di Pieve d’Olmi e San Daniele Po. Come è noto, la fusione non si farà. A San Daniele Po ha vinto il sì, mentre a Pieve d’Olmi ha prevalso largamente il no, con il 72% delle preferenze. Per essere approvata la consultazione doveva avere esito positivo in entrambi i comuni.
È stata persa una grande opportunità per il nostro territorio. «Quella di avere un Comune più forte, con più risorse e quindi con più servizi e una maggiore efficienza per i cittadini», come afferma il sindaco di Pieve d’Olmi, Attilio Zabert? Oppure «ha vinto il buon senso e non certo la paura dell’incognito», come assicura Simone Priori, uno dei coordinatori del comitato del no? Premettendo che il risultato delle urne va sempre onorato e rispettato, una risposta univoca non c’è. Di sicuro, invece, c’è che la questione si riproporrà pari pari nei tempi a venire. Il ‘Condominio Italia’ è costellato di piccoli Comuni, dove con il termine piccoli si deve intendere con meno di 10mila abitanti, alla prese oltre che con i problemi di fare quadrare il bilancio, anche con la necessità di garantire servizi adeguati ai cittadini, una corretta e puntuale gestione della cosa pubblica. Il che significa, per esempio, avere al proprio interno uffici tecnici in grado di produrre progetti e un’organizzazione amministrativa capace di rispondere sollecitamente alle esigenze della comunità. Tutto questo a fronte di una massiccia fuga dall’impiego pubblico che si sta registrando a tutti i livelli: troppo poco remunerativo rispetto alla libera professione, scarsamente incline a premiare voglia di fare e competenze. Insomma, l’orgoglio del campanile può non bastare a garantire la manutenzione del bene pubblico. Di fusioni si continuerà a parlare nei prossimi anni.
Nelle Regioni a statuto ordinario ci sono 6.631 Comuni, 4.566 dei quali con meno di 5.000 abitanti e 1.618 con meno di mille. In Lombardia, su 1.523 Comuni, sono piccoli 1.056 (pari al 69,34 per cento), con prevalenza di quelli con popolazione tra mille e 2.500 abitanti. La provincia di Cremona ne è chiara rappresentazione. Il che significa una tendenza alla notevole moltiplicazione dei costi avendo analoghi uffici che svolgono le medesime attività su territori contigui e con le identiche necessità. Il tutto rinunciando a sfruttare l’eventuale presenza di varie forme di economie di scala e al raggiungimento dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità, che si traducono in un sostanziale risparmio di spesa anche attraverso una riduzione dei costi unitari di erogazione dei singoli servizi. Se uniti, i piccoli Comuni possono avere una maggiore forza contrattuale e potenziale capacità di negoziazione istituzionale con amministrazioni locali di pari livello e di livello più elevato. Unirsi significa poi anche, e forse soprattutto, essere posti nelle condizioni per raggiungere un elevato livello di welfare. Un valore aggiunto di grande importanza soprattutto nelle fasi di crisi e di difficoltà come quelle che stiamo vivendo ora. Infine, concetto questo certamente molto popolare, si riducono i costi della politica, dovuti alla diminuzione dei consiglieri comunali, assessori e sindaci.
Certo, rispetto alle fusioni ci sono anche rischi e ostacoli. Vanno garantite la protezione dell’identità locale, la rappresentatività politica e i campanilismi; con le fusioni aumenta la complessità dei processi decisionali e gestionali e di gestione del personale; si deve porre rimedio a differenze finanziarie come, per esempio, quelle legate alle diverse aliquote dei tributi locali. Negli ultimi anni il legislatore italiano ha avviato un processo di incentivazione verso le forme di semplificazione amministrativa, prevedendo una quantità considerevole di vantaggi. Il primo incentivo da prendere in considerazione è rappresentato dai contributi straordinari statali erogati per dieci anni successivi alla costituzione del Comune nato da fusione. La Legge di Stabilità per il 2017 ha previsto che ammontano al 40% dei trasferimenti erariali attribuiti per l’anno 2010, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti e comunque in misura non superiore a due milioni di euro. Un vantaggio considerevole.
Vi è poi la possibilità di utilizzare i margini di indebitamento consentiti dalle norme vincolistiche in materia a uno o più dei Comuni originari e nei limiti degli stessi, anche nel caso in cui dall’unificazione dei bilanci non risultino ulteriori possibili spazi di indebitamento per il nuovo ente. Infine, sempre per stare su casi concreti, con l’obiettivo di contrastare il campanilismo dell’ente più forte c’è il naturale timore avverso le tendenze accentratrici. E c’è la possibilità di prevedere, nello statuto dei Comuni nati a seguito di fusione, l’istituzione di Municipi nei territori delle comunità di origine. Si tratta di una soluzione atta a consentire adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi alle comunità del Comune cessato. La domanda che resta sospesa, alla fine, è: l’orgoglio campanilistico vale davvero di più di un’amministrazione locale più ricca, più solidale e più efficiente?
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