28 Giugno 2023 - 05:25
CREMONA - «E dunque, miei cari tutti, Felici siano sempre i Diversi, gli Inadeguati, gli Strani, i Fuori posto, perché son quelli che vanno e non si fermano mai. Felici i cavalieri, ma ancor più i cavalieri vinti, gli sconfitti, i vincibili e gli esseri umani che sanno anche andare a piedi. Proprio come fanno gli eroi». È un manifesto dei valori la conclusione di ‘Forte e chiara’, l’autobiografia di Chiara Francini, già autrice di best sellers, nota al grandissimo pubblico in quanto attrice di cinema di tv, di teatro, presentatrice e televisiva, co-conduttrice dell’ultimo Festival di Sanremo (quanti dibattiti sul suo monologo!) e opinionista per un importante giornale nazionale. Una donna che non si nasconde dietro un dito quando ha da prendere posizione, con decisione rivendica le proprie convinzioni e, soprattutto che, nel mondo dello show business, difende con le unghie le proprie radici provinciali: «Può anche esistere Campi Bisenzio senza Chiara Francini, ma non Chiara Francini senza Campi Bisenzio». Ne è uscito un libro che ha scalato le classifiche delle vendite, segno che la sincerità paga. Ne parla con Paolo Gualandris nella videointervista ‘Tre minuti un libro’ online da oggi sul sito www.laprovinciacr.it.
Un’autobiografia non professionale ma umana. Come spiega, «è la storia di una ragazza come io, che è anche il titolo bellissimo del libro di una grande autrice, Anita Loos. A Girl Like I. ‘Una ragazza come io’ è espressione apparentemente strana, sgrammaticata, sbagliata, diversa quando la leggi per la prima volta. Esattamente come, da sempre, appaio io. In questa espressione, è vero, c’è qualcosa che disvia dalla regola, ma se le guardi tutte insieme, quelle parole che le danno vita, ti restituiscono un ordine, un’immagine bella, come la verità». Un romanzo di formazione di una ragazza di provincia che, imbevuta di sogni, si lancia nella vita per metterli in atto senza risparmiarsi, bruciandosi talvolta la pelle, con fatica e caparbietà. Ed è anche, nella seconda parte, una riflessione illuminante e profonda, talvolta grave, sulla tirannide del denaro e del potere che governa i comportamenti umani e, in chiusura, sulla condizione di ogni donna: quella di essere sempre dilaniata fra realizzazione personale e desiderio di maternità. Ovvero di essere destinata a una felicità, per definizione, mutilata.
Si definisce «una ragazza ubriaca di vita», perché allora sente il bisogno di fermarsi e scrivere un’autobiografia? «Perché il monologo impostato di una questione molto personale di Sanremo davanti a una platea immensa come quella del Festival ha generato una così grande condivisione e suscitato un grande dialogo. Ecco, la mia autobiografia umana nasce così. Non c’è niente di professionale in questo libro, ma il racconto da quando ero nella pancia della mia mamma, dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’adultità come la chiamo, fino ad arrivare a questo, all’oggi. Sono stati anche i fallimenti a darmi una spinta».
Da ragazza di provincia, scrive di «essere pienamente consapevole di essere: un’arricchita, una paesana, una parvenue». Ci vuole coraggio per presentarsi con un biglietto da visita siffatto. Sorride: «E perché? Essere una paesana e una arricchita significa semplicemente che i soldi prima non ce li avevo e ora li ho. Quello che sono lo devo al paese dove sono cresciuta perché tutti noi siamo quello che abbiamo mangiato da piccini. Quindi ho ho questa fame, questa tigna. Quindi sono orgogliosamente di provincia». E spiega di essere nata in una famiglia «non voglio dire poverissima, però certamente di grandi lavoratori e ciò ha fatto sì che io dovessi volere fortissimamente il raggiungimento dei miei ideali, di vedere concretizzate le mie passioni. Tutto ciò, ovviamente, doveva necessariamente andare di pari passo col mio sostentamento.Quindi sono andata a Roma, ma dovevo dovevo mantenermi e quindi sicuramente il fatto di essere nata in quella famiglia di aver ricevuto quell’educazione di essere cresciuta in quel paese ha fatto sì che sicuramente io avessi una contezza abbastanza profonda del fatto che il lavoro è ciò che dà dignità, ma che deve non solo farti sopravvivere, piuttosto vivere con felicità».
Insomma, è cresciuta avendo attorno a sé un grande capitale umano: «I miei genitori per tutta la vita hanno lavorato e basta, che io mi ricordi, quindi probabilmente questo concetto l’ho poppato fin da quando ero nella pancia della mamma... Sulla nostra vita aleggiava lo spettro del mutuo della casa da pagare. Avevo due mesi quando la mamma, per lavorare di più, mi ha lasciato alle cure di nonna Orlanda detta l’Orlanda furiosa. La mia infanzia è trascorsa nelle case popolari dei miei nonni. Essendo figlia unica, i miei compagni di giochi erano i vecchini di 80 anni e questo probabilmente ha fatto sì che sviluppassi la grande questa fantasia che ho».
E continua: «La mia è una famiglia matriarcale in cui le donne erano caratterizzate da valori tradizionali, ma avevano anche una modernità di pensiero. La mia infanzia e la mia adolescenza profondamente italiane si sono svolte tra la parrocchia e la festa dell’Unità, come in un film di Moretti». L’elogio della diversità e dell’amicizia è il filo rosso del libro: «Sono componenti fondamentali per riuscire a vivere bene. In quanto figlia unica ho sempre pensato che l’amicizia sia il sentimento d’amore supremo perché scevro di implicazioni parentali. È amore per amore e penso davvero che lo spendere del tempo alla costruzione di ricordi che nascono tra amici sia un patrimonio importante... i viaggi fatti insieme, ma anche le piccole cene arrabattate all’ultimo minuto, i tragitti magari del mattino per andare a lavorare o a scuola: ecco sono quei ricordi che secondo me saranno capaci di nel futuro di sfamarti anche quando penserai di non avere più appetito». Chiara non nasconde i suoi grandi momenti di smarrimento, quando pensa di dover mollare, «ma non lo so se ho pensato di non farcela perché sono sempre stata un’operaia della vita, quindi mi sono sempre fatta guidare dalla passione».
Nel libro non poteva mancare un capitolo dedicato al monologo in televisione che ha fatto più discutere, quello sui Sinistri e i mancini. Non pensava che avrebbe portato tutta questa attenzione: «Davvero mi ha stupita perché era la descrizione di categorie sociologiche che avevano impattato nella mia vita. I due ordini supremi che comandano l’Italia. Ovviamente sinistri non rappresentano la sinistra, sono persone opache nel senso che si mettono in bocca ideali nei quali non credono. Sono quasi sempre dei ricchi che si vergognano d’esserlo e vorrebbero essere nati poveri per poter essere considerati intelligenti, vorrebbero essere percepiti come poveri, ma sono pur sempre ricchi e sanno che la fatica costa parecchio. E loro, i soldi per pagarla ce lo hanno. Sempre. A loro non frega assolutamente nulla di Berlinguer, degli operai, del lavoro, dei diritti, del teatro, delle minoranze, della cultura».
I mancini sono invece una categoria più monolitica: «A loro non interessa essere o apparire colti, ma solo apparire ricchi. Faccio tutta una disamina delle caratteristiche dei Mancini e dei Sinistri che ho che ho incontrato, però ormai tutte le volte che apro bocca, da Sanremo in poi, si aprono dei dibattiti nazionali Non so come sia possibile». È il successo, bellezza, si potrebbe chiosare.
S.E.C. Spa – Divisione Commerciale Publia : P.IVA 00111740197
Via delle Industrie, 2 - 26100 Cremona : Via Cavour, 53 - 26013 Crema : Via Pozzi, 13 - 26041 Casalmaggiore