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SUL PALCO DEL PONCHIELLI. IL VIDEO

Cristiano De André, dolore di un’anima salva

«Papà avrebbe voluto che facessi il veterinario, voleva tutelarmi dal confronto con lui»

Luca Muchetti

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14 Marzo 2025 - 08:31

CREMONA - Da Genova a tutti i teatri e le piazze d’Italia, quello fra Fabrizio De André e il suo pubblico è un dialogo che non si è mai fermato, un amore che non si è mai arreso. Neppure alla morte. Non c’è altrimenti alcun tipo di spiegazione per l’affetto che - a 26 anni dalla scomparsa di Faber - ha investito anche ieri sera il figlio Cristiano De André. Il primo colpo d’occhio al palco restituisce, sprofondata nelle luci blu, una sagoma che è il calco paterno. Seduto in penombra, gambe incrociate, capelli fluenti sul volto e il manico di un bouzouki puntato verso l’alto, Cristiano sceglie una doppietta di brani in genovese (Mégu megún e ’Â címma, entrambi tratti da Le Nuvole, entrambi scritti insieme all’amico Ivano Fossati) per salutare un teatro a cui padre e figlio erano e sono particolarmente affezionati: «È un piacere e una fortuna suonare qui e poter dare la possibilità di ascoltare questa musica a chi non ha mai potuto ascoltare dal vivo mio padre - dice Cristiano, 62 anni e una carriera da cantautore solidissima ma inevitabilmente adombrata dall’eredità paterna -. Lui voleva che io regalassi un nuovo vestito alle sue canzoni. Ne parlammo proprio durante l’ultimo tour. Purtroppo le cose sono andate come sono andate. Ho deciso di farlo comunque, ma per conto mio. Con la band che oggi mi accompagna abbiamo preso una quarantina di opere e cambiato gli arrangiamenti. C’è un filo rosso che lega le canzoni di papà: la coerenza di chi si è sempre schierato dalla parte dei più deboli, di chi ha sempre pensato che non si può vivere senza dolore, e che non esistono poteri buoni».

cristiano

Ho visto Nina volare, Don Raffaè, Se ti tagliassero a pezzetti e Smisurata preghiera corrono fra la produzione degli anni Ottanta e Novanta rivestiti di arrangiamenti per lo più elettro-acustici e permeati da un nuovo vigore rock, impresso soprattutto dalle ritmiche delle tante chitarre di cui Cristiano letteralmente si circonda durante il concerto.

teatro

«Ricordo quando mio padre era in tour coi New Trolls - ricorda il musicista -: appena potevo lo raggiungevo perché amavo quel mondo. Era il periodo delle contestazioni. Gruppi di Autonomia Operaia sfondavano e chiedevano spazio. Mio padre parlava con loro, anche se spesso loro lo fischiavano quando si trovavano in disaccordo. Una sera apparentemente tranquilla, io stavo vicino all’ingegnere del suono e, così, tanto per provare, feci un fischio. Lui smise di suonare e disse: ‘Hai ragione’, partendo con una filippica di 20 minuti. Non ho mai avuto il coraggio di dirgli che ero stato io. Lo dico ora a voi». La scaletta è una parata di capolavori che intreccia l’anarchismo di Nella mia ora di libertà all’ebbrezza alcolica ed esistenziale di Amico fragile, la Sardegna rurale di Disamistade alla Genova di Bocca di rosa e all’amore triste de La canzone di Marinella. «Mio padre era autoritario - racconta fra una canzone e l’altra -, mi avrebbe voluto veterinario e non musicista, voleva tutelarmi dal confronto con lui. Quel confronto c’è stato, ed è stato doloroso. Ho fatto tante cose, ma ho sempre sentito questo peso. L’orgoglio mi ha sempre comunque portato a fare quello che volevo fare. Mi iscrissi al Conservatorio, suonavo discretamente la chitarra, ma non mi sarei mai aspettato di fare un tour al suo fianco». Fu l’ultimo, quello di Anime Salve, «un cerchio che si chiudeva, uno dei periodi più emozionanti della mia vita».

Ma anche l’inizio di una storia che ancora oggi, di padre in figlio, mantiene viva e luminosa una tacita promessa con un pubblico mai venuto meno e mai stanco di poesia".

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