15 Novembre 2023 - 05:20
CREMONA - «Il dialetto è il linguaggio che esprime meglio il sentimento delle cose, la loro intimità. Vi ricorriamo quando siamo rilassati o in un contesto familiare. Io stessa ogni tanto utilizzo termini con la mia bambina, parole che magari sentivo da piccola. Per esempio, le ho detto ‘adesso dobbiamo scaravigliare i tuoi giocattoli’, cioè metterci a togliere quelli vecchi. Cosa vuole dire esattamente? Boh, fatico a tradurlo. Però nel mio lucano-milanese-cremonese, insomma nel mio mix, ha il suo senso, diciamo che è un termine onomatopeico».
Per apprezzare fino in fondo ‘Appreticchio’, nuovo romanzo di Fabienne Agliardi è necessario entrare in quella dimensione e lasciarsi trascinare dalla fantasia e dai propri ricordo personali. Imparare a destreggiarsi con termini come ‘sguallariato’, ‘taluorno’, sclarenato’ e simili (ma non temete, alla fine del romanzo si trova un istruttivo glossario).
Con una scrittura brillante per una storia ironica, ma in fondo anche un po’ amara, l’autrice regala al lettore un romanzo diverso a ogni pagina, in grado di sorprendere con il suo stile pirotecnico e le sue vivaci trovate linguistiche.
È un libro spiazzante. Agliardi crea un mondo nuovo. Ne parla nella videointervista per la rubrica ‘Tre minuti un libro’ online da sul nostro sito.
Due cenni biografici dell’autrice consentono di inquadrare la storia ancora meglio. È nata a Crema, sua nonna era di Soncino, ha abitato i primi 16 anni a Orzinuovi, sua mamma è lucana ha quindi passato tutte le sue estati nel paesino d’origine; vive a Milano da 20 anni dopo aver avuto casa a lungo a Legnano. Senza questa premessa non si può godere fino in fondo la storia né apprezzarne lo stile. Un melting pot di linguaggio che conferisce alla scrittura un’originalità assoluta, tanto amata da Remo Rapino, vincitore del Campiello con ‘Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio’, campione della letteratura in cui italiano e dialetto si sposano magnificamente, come nel caso - appunto - di Agliardi, che forse con questa sua storia supera addirittura il maestro: «Si possono descrivere realtà attraverso cose che non esistono affatto: così, attraversando un ponte sgarrupato, s’arriva a Petricchio, luogo dove le voci possono farsi memoria, sguardo, gesto, e un silenzio ch’è guardiano di rovine vive. Leggiamo pagine che parlano di noi. Bisogna solo ascoltare. Come ogni libro, Appetricchio rivela un atto d’amore».
Situato sul fianco di una montagna, separato dal resto della vallata da un ponte malfermo che gli abitanti attraversano raramente, Petricchio è il posto dove tornare per far pace con noi stessi e capire chi siamo. È qui che è nata Rosa, la madre di Mapi e Lupo, gemelli di Brescia che a Petricchio hanno trascorso tutte le vacanze della loro infanzia. In paese vivono personaggi stravaganti: la maggior parte di loro si chiama Rocco, in onore del santo patrono, nessuno ha un cognome ma è autodefinito dal lavoro che svolge. Tutti però hanno una storia da raccontare. Andando in auto verso laggiù, i protagonisti ricordano con nostalgia le avventure semplici e i rapporti genuini vissuti in quel posto che è sempre rimasto nei loro cuori, fino a svelare, con un inaspettato colpo di scena, il motivo che li ha tenuti lontani per un periodo così lungo della loro esistenza.
Un romanzo unico e originalissimo, dall’atmosfera avvolgente e piena di rimandi, capace di creare un sentimento nostalgico di forte immedesimazione con la descrizione del paese sospeso nel tempo che qui assume una valenza quasi universale.
«Sono figlia di tanti luoghi - conferma la scrittrice-. Ho avuto un percorso un po’ girovago è vero, sono un mix di culture, di lingue, anche di dialetti, se sto un po’ con un bresciano mi si aprono le vocali, se vado in Basilicata mi ‘appetricchio’».
Definisce questo paese moto a luogo con rinforzo di consonante perché in realtà si chiama Petricchio perché come succede spesso al sud si raddoppia. Un paese con 25 abitanti dove la modernità fatica ad arrivare; qui le strade non hanno nome ma vengono indicate con lannànz, larrète, labbash, langoppa, laddìnta e dove il resto del mondo è laffòra. Da lì il mare si vede sullo sfondo, lontano 123 tornanti spaccastomaco per i pochi che hanno il coraggio di affrontarli. È un po’ il paese universale, rappresenta i tanti borghi italiani, non solo ovviamente del Sud, di posticini così se ne trovano anche in Liguria, in Emilia Romagna, in Umbria. A movimentare la comunità arrivano i Bresciani di nome e di fatto.
Il libro parte dal viaggio della riscoperta, il giorno prima della chiusura del mondo il 7 marzo 2020 causa pandemia, l’ultimo concesso per i ricongiungimenti familiari. «Si infilano in autostrada per un viaggio lungo mille chilometri. Petricchio era un luogo importante per le loro vite, ma che avevano messo in pausa da vent’anni. Un tragitto che tocca tutti i caselli, Fiorenzuola, Chianti, Fiano Romano e così via fino a Petricchio. Durante il viaggio parte un flashback sul 1980, e i Bresciani ricordano i momenti fondanti della loro esistenza. Molti sono ovviamente divertenti, ma come in ogni vita ovviamente ci sono anche degli accadimenti più tristi. E uno di questi è il motivo che li terrà a lungo lontani».
Ma è rimasto comunque il loro posto del cuore, quell’angolo di mondo in cui chi ha un problema torna per riuscire a rappacificarsi con se stesso: «È così, perché ognuno di noi ce l’ha un posto così. E chi non ne ha forse forse si deve fare qualche domanda. Non c’è niente di meglio di questi luoghi per stare veramente bene. Io stessa quando torno al paese della mia nonna, Soncino, anche se lei non c’è più, mi ritrovo davanti a casa sua, la guardo e anche se ora ci abitano altri, mi rivedo piccola, felice, quando facevo l’albero di Natale e così via. Ultimamente sono tornata anche alla mia Petricchio lucana dopo 30 anni. Mi sono rivista in tutte le mie avventure di bambina, perché inevitabilmente il tempo scorre. Quando ci approssimiamo alla fine e inevitabilmente pensiamo a un luogo dove essere sepolti o dove spargere le nostre ceneri pensiamo a un posto dove siamo stati bene. È un sentimento che l’uomo si porta addosso dalla notte dei tempi. Ulisse dove vuole tornare? A casa, a Itaca».
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