IL PUNTO
Giugno 2024
«Ho comprato dieci metri di pane», «oggi la temperatura è di 28 etti», «ho pagato il caffè 4 watt», «ho la pressione delle ruote a 50 volt», «hai mai fatto un viaggio di 150 litri?». Messe così, sembrano affermazioni e domande folli: chi mai si sognerebbe di misurare in litri la lunghezza di un viaggio o in metri il pane? In realtà, è esattamente quel che accade quando si parla di latte, uno degli alimenti più sani e sicuri, fattore indispensabile per il buon sviluppo dell’uomo e di ogni specie animale fin dalla nascita.
Una delle immagini più dolci, belle e tenere è la mamma che allatta il suo piccolo, sia un bimbo, un cucciolo, un vitello o il neonato di qualunque altra specie. Senza quel latte all’inizio, correrebbe il rischio di non sopravvivere, di non fortificarsi, di non crescere in maniera equilibrata. E anche da adulto, dovrebbe andare a cercare altrove gli elementi nutrizionali necessari per una buona dieta. Non è solo una questione sentimentale: è un parametro strettamente legato a una sana prospettiva di vita.
Eppure, negli ultimi anni si è assistito a una regolare campagna di disinformazione e demolizione che ha trovato argomenti, oltre a quelli presunti salutistici, perfino in certi (molto interessati, perché alfieri di prodotti alternativi che chiamare latte è vietato per legge ) sostenitori dei concetti di sostenibilità ambientale ed economica che li impiegano strumentalmente come indicatori attraverso i quali valutare la qualità del latte. Proviamo a digitare su un qualunque motore di ricerca ‘il latte fa...’ e ne uscirà un quadro potenzialmente devastante. Fa male, fa ingrassare, non va bene agli adulti, fa male ai gatti, fa male alle ossa, fa male ai cani, fa venire i brufoli e altre amenità simili.
Raffinando la ricerca con un più preciso ‘il latte fa bene...’ la risposta più ricorrente è ‘sì, ma alle piante’. Eppure la stessa Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, in un suo rapporto dimostra i benefici del latte nella dieta umana sottolineandone anche la sostenibilità ambientale del processo di produzione. Si tratta di capire quali sono gli indicatori da analizzare. È questo il senso dei paradossi posti all’inizio, che sono il provocatorio titolo della relazione di Lorenzo Morelli, professore ordinario di Microbiologia e direttore del Distas dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente di Ircaf, Invernizzi Reference Center on Agri-food, alla ‘Giornata mondiale del latte’, svoltosi venerdì a CremonaFiere.
Ricorrenza che storicamente viene celebrata dalla Libera Associazione Agricoltori Cremonesi e da Confagricoltura a Cremona, capitale italiana della produzione di latte. Se la Lombardia si conferma prima regione con un valore del 46% sul totale nazionale, il 12 per cento di questo ‘mare bianco’, pari a circa un milione e mezzo di tonnellate, è targato Cremona. Un quarto del totale prodotto in regione. La maggior parte delle prove scientifiche disponibili sul consumo di latte e sul consumo di latticini, si legge nel rapporto della Fao, mostrano risultati positivi a favore delle donne incinte, dei bambini in età scolare, degli adolescenti (su aumento di altezza e riduzione dell’adiposità); ma anche sugli adulti in termini di ridotti rischi mortalità per tutta una serie di cause: ipertensione, ictus, obesità, diabete di tipo 2, cancro del colon-retto e della mammella, osteoporosi e fratture.
E sugli anziani, si notano la mitigazione della sarcopenia, soprattutto per la frazione proteica del latte, e la riduzione di rischi di fratture, fragilità, demenza e malattia di Alzheimer. Va detto: il latte italiano ha un’alta qualità ed è totalmente sicuro. I controlli del sistema sanitario nazionale confermano l’attenzione posta da parte degli allevatori ad assicurare al consumatore un prodotto ‘pulito’.
Da anni il Belpaese è tra i più virtuosi a livello europeo, con il solo 0,1% di non conformità sui limiti dei residui delle sostanze attive rilevati dalle analisi degli enti nazionali e locali di controllo sanitario. Per allargare l’orizzonte alla questione della sostenibilità, va posta l’attenzione su un concetto che emerge chiaramente dal report della Fao. Come ha ricordato lo stesso Morelli, «il peso degli alimenti sulle questioni ambientali deve essere misurato in relazione all’apporto del loro valore nutritivo», come peraltro già la Fao aveva indicato. Per questo il Life Cicle Assesment, Lca Valutazione del ciclo di vita, deve essere preceduto da una ‘n’ che sta per nutrient.
Senza entrare in tecnicismi troppo complessi, se capiamo che mungere un chilo di latte comporta una impronta ambientale maggiore che raccogliere un chilo di insalata, non possiamo non tener conto che per nutrirci ci basta assai meno latte rispetto all’insalata, grazie al fatto che il primo apporta ben più elementi nutritivi rispetto alla seconda. Se dunque ci poniamo nell’ottica di una corretta valutazione dell’impatto ambientale di questi due cibi, dobbiamo considerare quanto nutre una dose di latte rispetto a una di insalata. E ci accorgiamo che le cose cambiano, a tutto favore del latte.
Chi sostiene la necessità di chiudere gli allevamenti, punta il dito sull’impatto ambientale, sul consumo di suolo e sul dispendio di risorse idriche. Ma si tratta di tesi che la scienza sconfessa. «Affermare che per produrre un chilo di carne siano necessari 15mila litri di acqua, come alcuni sostengono — spiegano al Crea, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria —, è piegare l’informazione a uso di tesi preconcette. In gran parte si tratta di acqua piovana. E quella realmente bevuta dagli animali torna in circolo con gli alimenti o con gli esiti del metabolismo. Nessun consumo, semplicemente un uso».
Si afferma poi che il terreno necessario agli allevamenti potrebbe essere utilizzato per colture atte a sfamare l’uomo. Su questo argomento, un recente documento della Fao ricorda che nel mondo sono impegnati per l’allevamento del bestiame circa 2,5 miliardi di ettari, la maggior parte dei quali (il 77%) rappresentati da pascoli e praterie che solo in parte possono ospitare colture utilizzabili dall’uomo. In un modo sempre più popoloso, la vera emergenza sarà sfamare tutti. Impegnarsi in anacronistiche battaglie dal sapore puramente ideologico allontana l’obiettivo. E sconcerta i consumatori.
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