A partire dagli anni Venti del ‘900 nella Bassa Piacentina più della metà delle donne che avevano un lavoro erano occupate a San Nazzaro, nel bottonificio. La corretta denominazione della fabbrica era ‘Bottonificio di San Nazzaro – Società anonima lavorazione madreperla ed affini’. Per essere assunte era necessario essere iscritte alle corporazioni fasciste ed erano impiegate anche ragazzine di 14 anni. La fabbrica situata nel centro della frazione, sorta per volontà di alcuni azionisti e del parroco per passare poi alla famiglia Domenighetti, ospitava dalle 100 alle 170 operaie. C’erano anche alcuni uomini, addetti ai lavori più pesanti, e molte persone assunte erano stagionali comead esempio le mondine che avevano due differenti lavori a seconda del periodo dell’anno. Il numero di assunte, comunque, variava in base alle esigenze della fabbrica e le fasi di manodopera partivano dalla selezione delle conchiglie che arrivavano e che venivano sottoposte quindi alla lavorazione. Le operaie ‘taglierine’, che tenevano sempre le mani in acqua, trattavano le conchiglie stesse e ottenevano dischi di madreperla che servivano per fare i bottoni. All’inizio l’intera fase di lavorazione veniva eseguita amano con il rischio che le donne si ferissero, solo alcuni anni dopo vennero introdotti i macchinari. C’era poi il momento dell’eliminazione degli scarti, quando i dischi di madreperla venivano limati, e infine si passava all’operaia ‘spianatrice’ che rendeva lisci i bottoni. L’ultimo passaggio era quello dell’operaia ‘foratrice’, che praticava appunto i buchi per far passare ago e filo. Si racconta che la polvere che si creava in questi reparti aveva fatto ammalare parecchie donne di silicosi, una malattia polmonare causata dall’inalazione prolungata di biossido di silicio in forma cristallina. Nelle altre sale, invece, seguiva la fase della scelta: i bottoni meglio riusciti venivano messi in vasche con sostanze che li rendevano lucidi. Durante la Seconda guerra mondiale, a causa della mancanza di materia prima, il bottonificio di San Nazzaro restò chiuso per qualche anno ma già nel 1942 la lavorazione riprese regolarmente. All’epoca del fascismo era usanza che gli stabilimenti più grandi organizzassero per i dipendenti quelle che potrebbero essere definite ‘scampagnate’, ovvero gite fuori provincia della durata di una giornata. Mete di quelle organizzate dal bottonificio di San Nazzaro erano solitamente Predappio e Riccione. Naturalmente la prima località veniva scelta per rendere omaggio al Duce, che lì era nato, e durante il viaggio in torpedone le operaie cantavano brani inneggianti il Regime. La gita, inoltre, prevedeva una tappa davanti alle tombe dei genitori di Mussolini. Nel 1957 il bottonificio Domenighetti finì anche in parlamento, visto che il deputato Amerigo Clocchiatti presentò un’interrogazione al ministero del Lavoro e della Previdenza sociale per «sapere cosa intende fare a tutela delle lavoratrici del bottonificio Domenighetti, licenziate in tronco in seguito ad un’azione sindacale intentata per difendere i loro diritti sanciti dagli accordi interconfederali e violati dalla ditta stessa». Erano quindi svaniti i tempi delle gite e dei pacchi dono a Natale. «Il lavoro era duro, l’ambiente malsano e la paga bassa — ricordava qualche anno fa in occasione di un incontro con gli studenti un’ex lavoratrice dell’impresa di San Nazzaro —, ma per molte famiglie avere la moglie o la figlia che lavorava al bottonificio significava una certa sicurezza: erano anni di grande miseria e di disoccupazione, uno stipendio in più anche se basso voleva dire avere il pane assicurato». Il bottonificio è stato quindi per anni un’importantissima realtà del territorio di Monticelli, perciò ancora oggi associazioni e appassionati di storia locale gli dedicano mostre e spazi sui calendari d’antan. Inoltre, in occasione della tradizionale rievocazione dei mestieri che va in scena proprio domani nel borgo pallavicino, nonmancanomai i banchetti riservati ai vecchi macchinari di San Nazzaro e dimostrazioni sull’antica lavorazione dei bottoni in madreperla.
Elisa Calamari
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