06 Dicembre 2025 - 05:30
Carlo Torresani
CREMONA - Ha portato centinaia di migliaia di spettatori alla Scala occupandosi della promozione del pubblico, ha lavorato come ufficio stampa, è testimone di tre decenni di storia scaligera e alla vigilia della ‘prima’ di domani il racconto di Carlo Torresani, cremonese doc, non è solo la testimonianza di una grande passione per la musica, ma anche dell’onore di lavorare per il teatro più famoso del mondo. Colloquiare con Torresani è soprattutto un’occasione per vivere oltre quarant’anni di storia teatrale e musicale partendo da Cremona, dalla Scuola civica Monteverdi, da Andrea Mosconi, passando per Recitarcantando per arrivare ai giorni nostri e al 7 dicembre non solo come evento, ma come rito culturale e musicale, sociale e mondano.
Com’è arrivato al Teatro alla Scala nel 1995?
«Con una strada molto tortuosa, perché non immaginavo di lavorare alla Scala anche se è vero che la musica ha sempre fatto parte della mia vita».
La musica è stata quindi una presenza familiare?
«Mia madre era diplomata in pianoforte. In casa la musica era una presenza quotidiana. Fin da bambino, giocare a pallone nel campetto di fronte a casa e la musica classica facevano parte della mia quotidianità».
Che ricordi ha legati alla musica a Cremona?
«Ricordo con molto piacere e gratitudine Andrea Mosconi. Fu, come per generazioni di cremonesi di allora, il mio insegnante di Educazione musicale alle scuole medie. Lo ritrovai anche negli anni successivi perché dirigeva il coro del liceo classico Manin. E poi ancora come direttore dell’allora Civica scuola di Musica Claudio Monteverdi, dove insegnai giovanissimo per qualche anno. A lui devo anche la mia prima pubblicazione importante, e cioè l’introduzione al primo catalogo del Museo Stradivariano. Avevo 25 anni. Un altro ricordo fondamentale per la mia formazione è rappresentato dalla coppia artistica e nella vita formata da Maria Grazia Bertocchi e Wim Janssen. Insieme a Gabrio Taglietti e ad altri cremonesi come Mario Vitale, avevano fondato il Gruppo Musica Insieme e la rassegna Spazionovecento. A loro devo l’opportunità di aprirmi alla musica nuova.
Come nasce la sua esperienza di scrivere di musica?
«Sembra una scena da candid camera. Da ragazzo, ogni tanto marinavo la scuola per andare a Milano: mi affascinavano i negozi di dischi e le riviste musicali. Un giorno, a diciassette anni, scendo dal treno a Lambrate e all’edicola della stazione vedo per la prima volta la rivista Musica. La compro, e un signore dietro di me mi dice: ‘Le piace? Io sono il direttore, Umberto Masini, venga a trovarmi in redazione’. Da lì ho cominciato a scrivere per Musica».
All’università ha proseguito su quella strada?
«Sì, ho scelto Dams Musica a Bologna. Allora frequentare il Dams voleva dire frequentare le lezioni di Franco Donatoni, Aldo Clementi, Luigi Rognoni, Alberto Gallo, Lorenzo Bianconi. Un giorno ero in un bar di fianco all’Istituto di musicologia e stavo giocando a Space Invaders e a un certo punto sento una voce dietro di me che dice: ‘attento agli pterodattili malefici!’. Era Umberto Eco».
E il lavoro?
«Nel 1986, una serie di fatti e conoscenze casuali hanno determinato la mia carriera successiva e anche il mio arrivo alla Scala, dieci anni dopo. In quell’anno collaborai alla decima edizione del Recitarcantando grazie ad Angelo Dossena e Angela Cauzzi. Fui affidato a Giovanni Soresi, allora capo ufficio stampa del Piccolo Teatro che si occupava della comunicazione del festival. Fu Soresi a chiamarmi al Piccolo, all’Ufficio Edizioni e all’Ufficio Stampa. Dal 1987 al 1994 ho lavorato lì, negli anni di Giorgio Strehler. Sono stati anni indimenticabili».
E poi arriva la Scala.
«Sì. Nel 1994 si aprì una posizione all’Ufficio stampa scaligero. Fu proprio Soresi a segnalarmi l’opportunità. Mi disse: vai a fare un giro là, prova. Mi sentii come un topo al quale avevano aperto le porte di un caseificio... La prova andò bene e nel 1995 mi assunsero. Fino al 2000 sono stato addetto stampa, poi a partire dal 2001 ho assunto l’incarico di responsabile del Servizio Promozione Culturale».
Com’è vivere la ‘prima’ del 7 dicembre?
«È un evento unico. È il Meridiano di Greenwich della cultura, con giornalisti da tutto il mondo, televisioni, dirette. Gli occhi sono tutti puntati, l’attesa è fortissima. Naturalmente c’è un aspetto di presenzialismo mondano e politico. Ma alla fine l’attesa è per il fatto artistico. Mille persone il cui lavoro di mesi si accende nell’esatto momento in cui il direttore dà l’attacco e il sipario si apre sulla magia dello spettacolo e di straordinari artisti. Ci sono duemila spettatori in sala e milioni di persone collegati con le televisioni di tutto il mondo…».
In cosa consiste esattamente il suo ruolo nella promozione culturale?
«È un settore nato con Paolo Grassi nel 1947 quando con Strehler fondò Il Piccolo Teatro. L’idea era di costruire un pubblico nuovo e che il Teatro d’arte potesse e dovesse essere di tutti. Grassi portò alla Scala questa convinzione nel 1972 quando ne divenne Sovrintendente fino al 1976. Da allora il 20 per cento dei biglietti è riservato a quelle categorie di pubblico che per età, condizioni socioeconomiche e culturali avrebbero difficoltà ad accedere agli spettacoli attraverso il normale canale della biglietteria».
E gli artisti con cui è stato più bello lavorare — o più difficile?
«Calcolando che ho superato la trentesima stagione in Scala, non confesserò nemmeno sotto tortura con chi ho lavorato meglio e nemmeno chi è stato il peggiore. Faccio eccezione a questa mia promessa solo per tre artisti, che hanno sostenuto ciascuno il ruolo di Direttore Musicale. Riccardo Muti è stato per me un punto di riferimento, al di là dell’artista. Quando venni nominato al Servizio Promozione Culturale, il primo giorno che entrai in ufficio suonò il telefono: era Muti. ‘Venga da me’, mi disse. Lo raggiunsi in camerino e mi accolse dicendo: ‘Porti più studenti che può, io li incontrerò, parlerò con loro’. Fu uno stimolatore incredibile con una forza propulsiva che trascinava tutti».
Dopo Muti arrivò Daniel Barenboim.
«Una delle prime cose che fece fu portare la West-Eastern Divan Orchestra a Milano. All’epoca fu un’impresa complessa: l’orchestra riuniva musicisti israeliani, palestinesi, libanesi e la tensione era altissima. Carlo Fontana, l’allora sovrintendente, mi disse: ‘Carlo, pensaci tu’. Mi misi in contatto con Janiki Cingoli, del Centro Internazionale per la Pace in Medio Oriente, e insieme riuscimmo a coinvolgere le comunità ebraiche e musulmane».
Barenboim portò anche tante iniziative per i giovani.
«Sì, inaugurò la stagione con l’esecuzione integrale delle 32 Sonate di Beethoven. Chiese che in platea ci fossero moltissimi studenti e addirittura volle creare un ‘pubblico in palcoscenico’».
Ora c’è Riccardo Chailly…
«Quando accettò la nomina di direttore musicale, poco dopo mi presentai. Nel chiacchierare saltò fuori che ero laureto con una tesi su Alban Berg, l’autore del Wozzeck. Gli occhi del Maestro Chailly si illuminarono e si mise a discutere, cantando anche alcuni passi, sull’uso delle melodie popolari in questa opera. Il secondo è di pochi giorni fa. Avevo organizzato una prova aperta a qualche centinaio di studenti della Lady Macbeth di Shostakovic, diretta da Chailly e in programma per il 7 dicembre. Come sempre aveva accettato di parlare agli studenti che occupavano i palchi. ‘No – ha detto – gli studenti li voglio giù in platea’, attorno a me. Non devo aggiungere altro».
Tra i grandi nomi del teatro, ha incontrato anche Carla Fracci.
«Sì, la incontrai la prima volta al Ponchielli, dove facevo la comparsa in Romeo e Giulietta. C’era stato uno sciopero alla Scala, lo spettacolo si fece senza scene né attrezzi, e fu comunque meraviglioso. La Fracci aveva un carisma unico, sapeva trasformare ogni limitazione in poesia. Negli anni della mia esperienza alla Scala ho poi avuto modo di conoscere e collaborare con due straordinarie interpreti del corpo di ballo: Elisabetta Terabust, una donna di grande rigore e sensibilità artistica, e Alessandra Ferri, che incarna l’essenza della danza, con un’eleganza e una dedizione che commuovono».
A breve lascerà la Scala. Come guarda al futuro?
«Con gratitudine e un po’ di curiosità. Mi sento fortunato, ma anche pronto a un cambiamento. Tornerò sicuramente a Cremona, la città dei ricordi e degli amici. E andrò a Salvador de Bahia, dove alcuni musicisti — capitanati da un amico, il compositore e direttore d’orchestra Aldo Brizzi — hanno creato un nucleo lirico in una città che non ha un teatro d’opera. Tra loro figure di spicco eccellenti, come Paulo Coelho e Gilberto Gil. Hanno appena debuttato a Belém in occasione della conferenza mondiale sul clima COP 30. Il titolo è I-Juca Pirama. Lo spettacolo verrà rappresentato anche a San Paolo, Rio de Janeiro e in due importantissimi teatri europei, top secret. Insomma penso che mi lascerò ammaliare ancora dal teatro d’opera».
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