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IL COMMENTO AL VANGELO

Solo chi accumula tesori presso Dio può scampare alla delusione

La parabola è come un cantico alla durezza della vita e un affondo sulla necessità che ci sia sempre chiaro a chi apparteniamo davvero, quale sia il fondamento del nostro esistere

Don Paolo Arienti

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03 Agosto 2025 - 05:20

Solo chi accumula tesori presso Dio può scampare alla delusione

San Luca Evangelista (dipinto del Guercino)

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
(Lc 12,13-21)

La parabola che Gesù racconta per rispondere all’insistenza di un interlocutore, è forse la meno strana di tutte. Si sa che il genere letterario parabolico trasmette un messaggio spesso controcorrente ed utilizza una narrazione che ad un certo punto, proprio per custodire una saggezza inaspettata dalla ragione umana, sterza e va in direzioni inattese. Un uomo ricco che possiede molti beni e che si affida ad essi è per certi versi totalmente in linea con il cuore dell’uomo.

Come pure il fatto che quello stesso uomo debba morire e lasciare tutto: è il destino di ciascuno, sia di quanti sono schiavi delle cose accumulate e delle certezze “messe da parte”, sia di coloro che riescono a conservarsi più liberi. Solo chi accumula tesori presso Dio, ovvero solo chi nutre la propria vita di altro e sa relativizzare gli attaccamenti del cuore, può scampare dalla legge della delusione. Sì, perché la parabola è come un cantico alla durezza della vita e un affondo sulla necessità che ci sia sempre chiaro a chi apparteniamo davvero, quale sia il fondamento del nostro esistere.

L’equivoco, l’inganno e l’illusione sono alla portata di tutti e non per forza colpiscono l’immorale o il fanfarone. Una certa superficialità che si affida alle abbondanze più immediate può coinvolgere tutti. Il brano evangelico di questa domenica colpisce per la sua dura attualità: non solo perché rimette in circolo il ragionamento mai concluso sulla giustizia dei nostri giorni, ma anche perché ha la pretesa di dare la sveglia al cuore, facilmente acquietabile sotto strati di tempo, cose, possibilità.

Al discepolo che ascolta la parabola, Luca intende suggerire un’alternativa radicale di vita: quella saggezza che si rende conto del valore vero delle cose, che sa metterle in fila e, di conseguenza, non dipende dall’esito sicuro della propria ricchezza. La parabola riconsegna così la verità profonda di ogni esistenza, la sua precarietà e la sua fugacità, ma anche la sua esposizione alle correnti impetuose dei beni intesi solo come propri, autoreferenziati. Si potrebbe sintetizzare il comportamento dell’uomo ricco con parole come egoismo, indifferenza, sicurezza in se stesso e nelle proprie sostanze… comunque si voglia designare quella persona, è il meccanismo consolatorio in cui cade ad essere posto sotto accusa.


Sarebbe utilissimo, approfittando anche della pausa estiva, che a quei granai allargati e riempiti di ricchezze della parabola potessimo sostituire ciò da cui, oggi, facciamo dipendere la nostra vita. Nella sua continua e folle accelerazione, da tempo alla iperconnessione che droga le relazioni, dal denaro all’immagine di sé ostentata sino a distruggere ogni intimità… quale velenosa ricchezza ci fa dire “sono al sicuro”? Quale potente distrattore offusca la luminosità di una vita libera?


Uno dei tratti più scomodi, ma anche meglio riusciti della sapienza di ogni tempo è stata la riflessione sulla mortalità di ciascuno, sulla precarietà dell’esistenza: l’elenco di filosofi, uomini e donne spirituali, letterati e dotti che hanno messo mano alla riflessione sulla vita e le sue interruzioni fatali che tutti rendono davvero uguali, sarebbe infinito. Ma dato che ad essere messo a tema non è un ragionamento astruso di qualche libero e folle pensatore, ma è la struttura stessa del nostro esistere, ecco che in quell’elenco dobbiamo per forza di cose entrare anche noi.


Anche noi è bene ci confrontiamo con quell’appellativo così radicale ed antipatico: “stolto”, ovverosia sciocco, insensato, superficiale; e con la domanda cruciale della parabola che si interroga non direttamente sul destino dell’uomo, ma sul transito delle cose a padroni che non hanno lavorato, che non si sono preoccupati di faticare. È la vacuità di certe preoccupazioni che svuotano di senso l’esistenza. E, di contro, è la barriera che poniamo davanti alle cose più urgenti, agli appelli della vita a condannarci: dai silenzi sulle ingiustizie al modo sconsiderato con cui si sprecano i beni della terra.
Il Vangelo non è mai tenero, perché certi dinamismi della vita sono esposti ad alti livelli di inquinamento. E serve una Parola più alta perché il cuore sia risvegliato e perché ci si ricordi che in gioco c’è il valore non delle cose, ma dell’essere umano.

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