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L'INTERVISTA

Cannes, il sogno di Sergio Romano tra ironia e grande cinema

L’attore cremonese sul red carpet con Le città di pianura, film di Sossai selezionato per 'Un certain regard'. Un racconto veneto tra polenta, vino e disincanto: «E' stata un'emozione incredibile essere sul red carpet»

Nicola Arrigoni

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30 Maggio 2025 - 10:50

Cannes, il sogno di Sergio Romano tra ironia e grande cinema

Francesco Sossai, Filippo Scotti, Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla al Festival di Cannes

CREMONA - È il terzo attore cremonese ad aver calcato il red carpet del Festival di Cannes, la vetrina più importante del cinema mondiale. Nel 1981 Ugo Tognazzi vinse, incredulo, la Palma d’oro per La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci. Nel 2011 Dario Cantarelli sorrideva e salutava a fianco di Nanni Moretti e di Michel Piccoli alla presentazione del film Habemus Papam in concorso. All’ultimo festival di Cannes – avaro di premi per il cinema italiano – l’attore Sergio Romano continua la tradizione dei cremonesi sul red carpet, grazie alla presenza nella rassegna Un certain regard del film Le città di pianura di Francesco Sossai. È la storia di Doriano, detto Dori (Pierpaolo Capovilla) e di Carlobianchi, tutto attaccato (Sergio Romano): sono amici di bevute in un Veneto rurale che pare quasi il Far West. Il loro obiettivo nella vita è sfondarsi di lumache e polenta e andare a bere l'ultima ombra di vino: una voglia che va al di là della sete.

«Pensare a Ugo Tognazzi e a Dario Cantarelli e avvicinarmi alle loro figure mi fa tremare le vene ai polsi e sarebbe folle solo pensarlo – racconta Romano fra il divertito e lo stupito -. Ma certo questo è un dato oggettivo: ho avuto la possibilità di partecipare a Cannes con un film che, alle prime reazioni della critica e della sala, piace e convince proprio per il suo specifico cinematografico. Di questo ringrazio l’opportunità offertami da Sossai».

Come è stato trovarsi sul red carpet?
«Io vivo in campagna, a Tivoli, in una casa isolata nel verde. Da questo posto di massima tranquillità, mi sono trovato, il 21 maggio scorso, in poche ore a Cannes. Partito alla mattina, alle 19 ero sul red carpet in smoking. Ancora adesso fatico a crederci e guardo le foto con un certo stupore, quasi non mi sembra vero. È come se a un certo momento ti buttassero in un frullatore e non sei più padrone di te stesso, devi seguire il flusso, sei in balia di un gioioso meccanismo che ti travolge ma anche ti entusiasma».

Ovvero?
«Ogni cosa è programmata, ogni dettaglio è fissato, dai vestiti che indossi ai crediti fotografici, da come ti devi muovere e dal rito della cerimonia. È una grande fiera. Sul red carpet si vede di tutto, abiti di signore incredibili, donne bellissime con i look più stravaganti. Sul red carpet arriva anche chi ha il biglietto per la sala e il gioco è un gioco di eleganza e stravaganza. Tutto è spettacolo all’ennesima potenza».

Essere a Cannes è un traguardo o un punto di passaggio?
«Non è un traguardo perché ho vissuto la cosa come una festa, un gioco a cui fatico ancora oggi a credere. Sicuramente con il film di Sossai ho avuto la conferma che fare cinema di qualità e cinema nel senso del linguaggio filmico è possibile. Aver partecipato a questo lavoro mi conferma nella passione per il grande schermo che mi ha portato a fare l’attore, partendo dal teatro, con grandi maestri e arrivando al cinema. Il mio sogno da ragazzino si è realizzato».

Come definirebbe Le città di pianura?
«Si tratta di un film che non vuole limitarsi a raccontare una storia. La vicenda narra di due cinquantenni del Triveneto che passano la loro vita a bere, in cerca di quell’ultima ombra che non è mai l’ultima. I due incontrano Giulio, giovane studente di architettura, un secchione che ama una ragazza, ma non osa dichiararsi. Un timidone un po’ impacciato che viene risucchiato nelle scorribande alcoliche in un territorio che i due uomini non riconoscono più o in cui non si ritrovano più».

Questa è la vicenda che da quello che dice è una parte del lavoro di Sossai.
«Credo che Le città di pianura abbia dalla sua una scrittura cinematografica densa che i critici hanno colto e apprezzato. È un film che si gode a più livelli. Non c’è solo il racconto, che pure è interessante; non è l’unico testo presente nel film. Le città di pianura è un omaggio al cinema, è un film fatto di cinema, in cui lo sguardo del regista è interno al linguaggio del grande schermo. Le inquadrature, la fotografia, la sceneggiatura parlano di cinema, sono cinema, una sorta di road movie nel mondo dei due protagonisti, ma anche nel mondo del cinema. Attraverso Dori e Carlobianchi vediamo il mutare di una realtà, di un paesaggio, la trasformazione di un habitat, di un contesto sociale e paesaggistico che rischia di essere estraneo a quei cinquantenni disorientati. Detta così, la storia sembra come molte che caratterizzano il cinema di questi anni, ma per capire La città della pianura bisogna vederlo, bisogna godere della materia delle immagini. È con grande soddisfazione che ho preso parte a questo progetto. Fin dalla prima lettura qualcosa ha risuonato in me e davvero non mi sbagliavo».

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