IL COMMENTO AL VANGELO
11 Maggio 2025 - 05:05
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
(Gv 20,27-30)
Pochissime righe, molto dense, perché sia ribadito un punto che spesso scivola in secondo piano, diviene marginale e quasi scontatamente trascurato. L’esperienza cristiana è innanzitutto una relazione spirituale con il Signore. Giovanni lo fa ribadire con grande chiarezza a Gesù nella metafora del buon/bel pastore che dà la vita per le pecore, aggiungendo però che questo non basta: non solo lui, il Signore, conduce, procura il pascolo e protegge, ma loro, le pecore, a loro volta ascoltano la sua voce. Ovvero si fidano, sono in relazione intima con lui, ne decifrano il ruolo e affidano la loro esistenza a colui che le può condurre.
Ed è proprio questo legame a doppio filo, questa profonda coimplicazione e appartenenza reciproca il cuore di tutto. I riti, le parole e i gesti sono strumenti per altro: non sono mai fini a se stessi, ma servono la comunione tra l’umanità e il Signore perché è questa radicazione fedele, addirittura “eterna” dice Giovanni, ad avere valore assoluto, ad essere davvero centrale. Esistono diverse narrazioni del Cristianesimo: ce n’è una ideologica (che purtroppo abbiamo visto occupare massicciamente in queste ore il dibattito sull’elezione del nuovo papa… perché occorre capire se è dei nostri o meno, se è di destra o di sinistra…); ce n’è una sociologica che apprezza la filantropia dei discepoli di Gesù al pari di una benemerita ONG che distribuisce pacchi e derrate alimentari, facendo quello che fanno un po’ tutti; ce n’è una anche spirituale che fa di Gesù, il vivente, non un mito o un totem sacro, ma la testa di un corpo storico, la ragione contemporanea della speranza. Ed è quest’ultima narrazione che Giovanni vuole sostenere: perché le pecore, ovvero i discepoli, non nutrono solo nostalgia o vaghi ricordi ideologici nei confronti del pastore, Gesù, il crocifisso che un tempo ha dato la vita per loro, ma sono in relazione qui ed ora proprio con lui: ascoltarne la voce e seguirlo è la risposta di fede alla sua contemporaneità, al suo essere risorto. E tramite la relazione con lui hanno accesso al Padre: quest’ultimo resta un mistero, spesso percepito a fatica come molto lontano, silenzioso e nebuloso. Eppure proprio la vita, la voce e i passi del pastore lo riavvicinano al gregge, lo rendono un mistero non solo alieno, non solo terrificante. Giovanni è il maestro della comunione: nella descrizione dei gesti che popolano il suo Vangelo e nelle parole messe in bocca a Gesù, interlocutori e persino avversari, emerge sempre questa preoccupazione: che i codici religiosi siano vissuti come secondari, derivati rispetto alla possibilità di stabilire una connessione fedele e vitale tra Dio e umanità, quella che già l’Antico Testamento definiva alleanza (famosissima quella tra Israele e Yavè, di cui purtroppo ancora oggi vediamo letture distorte e riscritture assurde).
Il cuore dell’alleanza con Dio è per i Cristiani in Gesù. Come ha ricordato sin dalle sue prime parole papa Leone XIV che alle parole pace, ponti, sinodalità ha collegato proprio Cristo, il fondamento vivente di una fede che non si esaurisce in gesti religiosi, ma è costituita da un legame d’amore. Percepire, scegliere e confidare in questo legame, anche nei giorni più bui dell’esistenza, quando non si comprende bene o non si scorge affatto la luce della vita, è il senso più profondo della fede. Anche quando non si sa dove questo pastore ci stia portando e quanto pesante sia il cammino, la fede è fiducia in una parola rivolta a me, rivolta a noi; è esperienza di un legame che vuole superare il baratro del male, l’equivoco del merito, lo scandalo del mercantile. Ed anche di questo amore per tutti, incondizionato, il nuovo papa si è fatto eco da un balcone che per qualche minuto è ritornato centro del mondo. Da lì, dopo settimane silenziose per la malattia polmonare di Francesco, certe parole e certi sguardi hanno ricondotto a lui, al pastore che dà la vita, alla fedeltà di Dio che rifonda la speranza di un pascolo per tutti.
Il tempo pasquale è anche questo: proclamazione di una relazione vera e profonda che rende Cristo nostro contemporaneo, bellezza e forza che ci precede.
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