25 Aprile 2025 - 08:40
Un gruppo di partigiani cremonesi nei giorni dell’insurrezione davanti alla portineria di casa Manini a Sant’Imerio
CREMONA - «Cara e santa madre di Deo, è con dolore che scrivo perchè so di rinnovare un grande dolore.... il dolore di una madre. .... Quante cose si sono dette, quanto dolore e rimpianto ha suscitato fra noi la morte di suo grande figlio e fra le genti che hanno avuto la fortuna di avvicinarlo e conoscerlo...... Ma al di sopra di ogni pensiero e sentimento una nota stonata, dura terribile come una fitta al cuore od un traviamento ha scosso ognuno di noi ed è questo: Deo morì gridando viva il comunismo. Quale mistificazione, quale bestemmia o insulto è stato lanciato contro il suo figlio e contro colui che noi amavamo, fra tutti il più caro. No mamma, questo non è vero. Il suo figlio morì come sanno morire i cristiani, visse come lei gli aveva insegnato a vivere e morì come pochissimi sanno morire, morì da forte perchè morì nella grazia di Dio».
Deo è il nome di battaglia di Amedeo Tonani, comandante della 17 Brigata Garibaldi Felice Cima di stanza in Val Susa, caduto il 30 marzo 1945 sulle montagne piemontesi. Le parole accorate e commoventi, estremo tentativo di consolare lo strazio di una madre — cara e santa la appella — forte tanto da assecondare il desiderio di libertà del figlio, condiviso da tanti giovani pronti a tutto, anche al sacrificio della vita, pur di vedere l’Italia libera, sono di don Aldo Parisio, nome di battaglia Paolo, cappellano militare di Brigata. È lui che mantiene i collegamenti con la Resistenza, i partigiani in montagna e le famiglie. È lui a raccogliere le ultime volontà e le ultime parole di Deo, ferito a morte, adagiato su un materasso di foglie a fare da letto dentro una baita. La lettera fa parte di un ricco carteggio custodito presso privati, futuro oggetto di studio. La corrispondenza fra il giovanissimo partigiano e i genitori si colloca fra il Natale del ‘44 e i giorni che precedettero la morte, il 30 marzo del ‘45 a Favello, in Val di Susa, al culmine dell’ennesimo rastrellamento nazifascista. Era il Venerdì Santo. Vi si legge della commovente visita della madre, di una prima ferita guarita, dell’esempio di serietà che metteva nella quotidiana lotta in montagna, nello spirito di sacrificio, nell’impegno, nella rinuncia a favore dei più deboli.
Scrive ancora don Aldo: «Una volta morivano tutti gridando viva il fascismo: sì, lo sappiamo, lo sapevano, e si sorrideva e si compativa. E ora cercano di fare morire gli eroi con un altro grido sulle labbra. Quanta indignazione, credo che per lei sia stata una grande pena tutto questo. Gli uomini sono vili e vanagloriosi, hanno paura della verità. ..... per costoro esiste solamente il disprezzo o la compassione. Il primo è un sentimento umano, il secondo più cristiano. Ad ogni modo credo che le farà piacere il sentire qualche particolare sulle ultime ore di vita del suo amatissimo figlio da parte del Cappellano militare della XVII (Brigata Garibaldi, ndr)».
Deo era coscio della gravità della sua situazione, soffriva moltissimo ma «giovane e forte cristiano non si disperava». Era consumato dall’arsura, la febbre altissima provocata dall’infezione non gli dava tregua. Riusciva a bere piccoli sorsi d’acqua e «un briciolo di neve». Fuori l’inverno mordeva ancora.
«Alla sera dopo il combattimento lo trovai adagiato sopra un letto semplice nella stalla vicino alle bestie dei montanari. Gli erano vicini i garibaldini. Mi vide, mi riconobbe e mi chiamò: don Paolo.... È inutile, disse, sento che debbo morire. Soffro troppo.... . Poi con la mano cercò la catenina che portava al collo e la baciò. Sovente chiamava: mamma!». Si confessò e ricevette l’olio santo. «Un guerriero, un eroe che dopo una giornata di guerra e alla sera della sua vita di quaggiù riceveva Iddio nel suo cuore».
La chiusura della missiva firmata dal sacerdote è tutta per la mamma: «Forse era troppo buono, troppo onesto, troppo giusto, per restare in questo mondo cattivo. Soffra ma non si disperi. Iddio saprà dare a lei la forza, la rassegnazione nella vita e la speranza di rivederlo lassù, oltre la terra ed oltre i monti. Un saluto affettuoso a lei. Mi ricordo di Deo e di lei sempre in tutta la vita». E un post scriptum: «Un saluto ai partigiani cremonesi della XVIIª».
La lettera, quattro pagine fitte fitte, è datata Valle di Rubiana, 19 agosto 1945.
Nel tragico inverno fra il 1944 e il 1945 sulle montagne piemontesi, l’ultimo di guerra, i Garibaldini guidati da Amedeo Tonani sono accerchiati dal nemico ma ancor di più dalla fame, il freddo, le veglie, i pericoli. I partigiani non cedono, nonostante siano decimati dai rastrellamenti nazifascisti: il 2 luglio del ‘44 al Col del Lys erano intanto caduti i cremonesi Franco Scala, Edoardo Boccalini, Sauro Faleschini, Gian Paolo Conca e Alfredo Zaniboni insieme ad altri 21 compagni. I rastrellamenti costringono i partigiani a continui spostamenti sul territorio, a cercare nascondigli di fortuna, a vivere in condizioni fisiche durissime, logorati da marce estenuanti. Lo stillicidio di morti sembra non finire mai. Ogni giorno si sono nuove vittime, chi viene fatto prigioniero non fa più ritorno, scompare nel nulla come i cremonesi Paolo Bozzetti e Aldo Codazzi. Cadono Attilio Novasconi, detto Barbarossa, Leonida Panni, Leo, appena sedicenne, e Nando Righetti.
Anche il cappellano don Aldo Parisio, don Paolo, classe 1919, divide con i ‘patrioti’ vita e speranze sul campo. Ordinato sacerdote nel giugno 1943, inizia in un delicato periodo di guerra per l’Italia il suo ministero e pochi mesi dopo sceglie di salire in montagna per unirsi volontariamente ai combattenti della 17ª Brigata partigiana Garibaldi. Questa esperienza sarà fondamentale nella successiva scelta dell’ambiente del proprio ministero. «Era giusto e doveroso per un sacerdote essere fra la gente che soffre e combatte. Tutti dovevamo dare il nostro contributo per la Patria tradita. Tra le loro fila ho trovato i figli del popolo d’Italia, gente che conosce i sacrifici e li affronta senza lamentarsi perchè sa che non sono vani — è la sua testimonianza pubblicata sulla Sentinella garibaldina del 23 dicembre 1944 — . Ho notato fratellanza, in questo esercito del popolo non esiste la esagerata e odiosa differenza fra soldati e comandanti. La disciplina, quella sì, regna più che altrove. Si divide il giaciglio e la pagnotta. Nelle ore libere e di riposo i garibaldini ricordano le loro famiglie, parlano dei loro cari lontani... la patria soffre per il tradimento di molto suoi figli, sono rimasti però i figli migliori qui sui monti e combattono perchè presto il dolore abbia fine», scrive ancora il sacerdote torinese.
Febbraio e marzo 1945 sono mesi di lotta ma i partigiani della Felice Cima tengono duro. Fino a quel tragico mattino del 29 marzo quando tedeschi e fascisti pianificano il rastrellamento circoscrivendolo alla zona tra Favella e Mompellato nel torinese in cui risiedeva il comando della Brigata. Spari e raffiche di mitra segnalano la presenza del nemico sul canale di Rocca Sella. Sergio Rapuzzi, detto Pucci è il primo ad essere colpito a morte. Deo corre in suo aiuto caricandosi il corpo sulle spalle ma viene colpito gravemente. Spirerà il giorno successivo fra le braccia di don Paolo. Distrutti molti dei ricoveri utilizzati dai garibaldini e morti tanti di loro, la battaglia aveva lasciato la 17ª senza comandante e senza comando. Mentre i corpi dei caduti restano in montagna e solo dopo la Liberazione troveranno cristiana sepoltura nella terra d’origine, in pianura ci si prepara all’insurrezione. Rina, la mamma di Deo, sale in montagna «affrontando con coraggio una situazione piena di pericoli e con il cuore spezzato». Lo racconta Enrico Kiro Fogliazza nel libro Deo e i cento cremonesi in Val Susa. «Fu per noi e don Lavagno (il parroco di Mompellato che ospitò madri, moglie e sorelle dei partigiani, ndr) che aveva trasmesso la tragica notizia un incontro carico di dolore, affetto, e filiale solidarietà». La morte del figlio non l’aveva colta di sorpresa «anche se aveva sempre sperato nel miracolo. Una donna come difficilmente se ne possono incontrare».
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