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STORIE DI RESISTENZA

«Qui non posso entrare». La battuta di Renato fucilato a soli 19 anni

A 80 anni dalla morte, una foto inedita del partigiano cremonese dall’ironia pungente

Barbara Caffi

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03 Marzo 2025 - 10:48

«Qui  non posso entrare». La battuta di Renato fucilato a soli 19 anni

La fotografia inedita in cui il partigiano cremonese (a sinistra) è con un compagno della brigata (elaborazione grafica di Romeo Domaneschi)

CREMONA - È l’estate dei suoi 18 anni, la sua ultima estate: Renato Campi sceglie giovanissimo di fare il partigiano ed è una scelta che paga con la vita. Da un cassetto della nipote Luisa Ghinaglia Capitano spunta una fotografia inedita di Renato a Vigoleno, dove si era aggregato alla 62ª Brigata Garibaldi Luigi Evangelista. La camicia chiara con le tasche, i pantaloni tenuti stretti in fondo dai calzettoni, le braccia abbronzate, il naso importante e un sorriso accennato. Accanto a lui, presumibilmente, c’è un compagno della brigata. Incuriosisce la sua camicia nera, forse l’unica posseduta da quel ragazzo che le camicie nere aveva deciso di combatterle.

L’immagine è stampata su un cartoncino di piccolo formato, ingiallito dal tempo. La scritta sul retro, a matita, è ormai quasi illeggibile. Si distinguono le parole ‘grazie papà’, ‘tuo’ e la firma: Campi Renato, che dovrebbe essere il suo unico autografo esistente. I due ragazzi sono sul ciglio di una strada sterrata e un po’ in salita e alle loro spalle, nascosta da un ciuffo d’alberi e da una palizzata, si intravede una casa. La guerra, in quel momento, è lontana. Non ci sono agguati, sparatorie, rastrellamenti. Non ci sono né l’adrenalina dell’assalto, né l’odore della paura. In quella fotografia, scattata intorno a mezzogiorno (le ombre sono corte), Renato è solo un ragazzo, un ragazzo di diciotto anni in una mattina d’estate. Vent’anni fa, commemorandone la morte, Mario Coppetti disse: «Di questo giovane, del quale fino ad ora non si è mai parlato, certamente non vi è molto da raccontare, non ha compiuto clamorose azioni; e come avrebbe potuto? Quando ai giovani si schiude la vita – a lui toccò la morte. Noi abbiamo voluto ricordare Renato Campi perché in lui si possono identificare tanti, troppi giovani a cui fu stroncata la vita. Non erano degli eroi, ma uomini normali che però, posti davanti alla drammatica scelta di aderire alla Repubblica Sociale – erede del fascismo – scelsero, a costo di tanti pericoli, di stare con chi combatteva per la libertà». Però, i suoi 18 anni possiamo provare a restituirglieli, a ricordare com’era prima delle torture, della condanna a morte, della straziante lettera al papà.

Nato il 22 dicembre 1925, Renato è figlio di Alfredo, carrettiere, e di Giuseppina, casalinga. Ha tre sorelle - Elide, Anna e Andreina - e un fratellino che all’epoca aveva pochi anni, Carlo. È una famiglia sventurata: Giuseppina è morta, Elide è già vedova e ha due bambine, tra cui Luisa, da tirare su. Sono poveri, ma vivono con estrema dignità. Renato non ha un lavoro fisso ed è costretto dal bando del duce ad arruolarsi nella Guardia nazionale repubblicana. Appena può, però, scappa e nel luglio del 1944 raggiunge la Val d’Arda tra Vernasca e Vigoleno. È simpatico, Renato. Ha la battuta sempre pronta, sa farsi notare.

«Diversi anni fa - ricorda Luisa Capitano - sono andata a Vigoleno con mio marito (Arturo Capitano, uno dei grandi nomi della fotografia cremonese, ndr) per un servizio di nozze. In attesa degli sposi e degli invitati ci siamo messi a chiacchierare con un signore che aveva avuto un negozio in via Ruggero Manna e che poi si era trasferito proprio a Vigoleno. È stato lui a un certo punto a raccontare che in zona c’erano state molte postazioni partigiane e che si ricordava di un ragazzo di Cremona molto simpatico. Disse di aver saputo che l’avevano fucilato e che gli dispiaceva molto. Mentre parlava, mi è venuta la pelle d’oca, perché ho capito subito che si stava riferendo a mio zio. Erano passati parecchi anni dalla fine della guerra, ma c’era qualcuno che ancora si ricordava di lui e del suo carattere aperto e gioviale. Noi Campi siamo così, molto ironici. Quante risate ci siamo fatte con la zia Andreina».

Non ha molti altri ricordi, la nipote: «È un dolore che ha segnato molto la mia famiglia, quando se ne parlava preferivo allontanarmi. Ricordo però che dopo la guerra ho accompagnato la mamma e le zie in uffici che a me sembravano enormi. Forse era la Prefettura, quando allo zio Renato hanno assegnato una medaglia alla memoria».

Una battuta, Renato è riuscito a farla anche poco prima di essere fucilato. «È vietato l’ingresso agli estranei», c’era scritto davanti al poligono di tiro, che era più o meno in zona Tamoil. «Allora io non posso entrare», dice. Ridere in faccia alla morte è un modo per sconfiggerla, sbeffeggiare i tuoi assassini anche.

Di lui è noto che, durante la fiera di San Pietro, primeggiava correndo nella ruota della morte e così guadagnava anche due lire. Nel suo ‘santino’ ufficiale indossa un maglione a collo alto, la giacca ha un collo di pelliccia, i capelli mossi sono tenuti a bada dalla brillantina o dal sapone: in uno dei film neorealisti che qualche anno dopo avrebbero ridato dignità al cinema italiano, Renato Campi non avrebbe sfigurato.

La sua giovinezza, la sua vita si interrompono il 16 febbraio di ottant’anni fa. Nell’inverno del ’44, Renato sfugge al cosiddetto ‘rastrellamento dei mongoli’, tra le più feroci offensive nazifasciste contro i partigiani e la popolazione civile dell’Appennino ligure-emiliano. Non sono mongoli, ma armeni, azeri, georgiani, turkmeni, soldati reclutati fra i prigionieri di guerra e i disertori dell’Armata Rossa, tutti inquadrati nella 162ª Divisione di fanteria Turkestan. Combattono più o meno volontariamente una guerra che non è la loro, sono crudeli e i loro occhi tagliati a fessura contribuiscono ad alimentare il terrore che si ha di loro dalla Liguria all’Oltrepò alle valli piacentine.

In quell’inverno di neve e di freddo, gli Alleati segnano il passo e dopo la liberazione di Forlì - è la città del duce, il valore simbolico è altissimo - si arenano a pochi chilometri da Bologna. Con un proclama che per molti partigiani ha il sapore acido del tradimento, il generale Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, invita le formazioni partigiane a interrompere la lotta.

Renato torna quindi a Cremona e si nasconde in casa di Andreina in via Alfeno Varo. La sua non è una fuga, si saprà che il giorno prima di essere arrestato aveva contattato un organizzatore della lotta clandestina in città, mettendosi a disposizione. Qualcuno, però, lo nota e lo denuncia.

Campi viene intercettato prima in un cinema e poi a casa sua e per due volte riesce a scappare. La terza volta, inevitabilmente, viene preso.

«Il fermato alle ore 22,30 del 7/2/1945 XXIII essendo risultato disertore della G.N.R. e per appartenenza a bande armate del piacentino, è stato arrestato», è segnato sul verbale dell’Ufficio politico investigativo. A Villa Merli, sede dell’Upi, Renato è torturato per giorni, poi condannato a morte.

L’ultima notte la trascorre alla caserma Muti, nell’attuale via Ettore Sacchi. Trova la forza di scrivere al padre, gli affida il fratellino Carlo e lo consola, assicurandolo - come se fosse già morto - che in cielo lui e la mamma stanno bene. Sono parole incerte, struggenti:

«Caro Padre prima di morire credo opportuno ancora di farti sapere qualche cosa per me.

Caro Papà sono qua ancora poche ore e poi dovrò morire e mi sento dirti che ti tanto te amato te come la mamma la tua cara moglie che mi ricordo che poco tempo prima di morire ma detto queste parole/Renato so che devo morire, ti raccomando tuo fratello Carlo e poi ma detto anche che doveva dirmi qualche cosa a me per te il giorno dopo quando andavo a trovarla ma purtroppo era già morta.

Caro Papà mi dispiace molto morire perché non posso più vederti, avrei voluto poterti vedere ancora una volta ma vedi il destino ha voluto così

Caro Padre devo dirti che quando saprai questo non disperare non pensare a noi perché quassu in cielo stiamo bene, perciò di chiedo di non fare come prima cerca di capire perché ci sono ancora tante cose in casa per esempio il Carlo che ha bisogno di un’educazione l’Andreina che è stata per me come una Madre e così anche la povera Elide amata anche lei. Papà questo non importa oramai è passata.

Chissà che anche per la nostra famiglia sia finita qua crede che à abbastanza.

Caro Papà ti saluto ti abbraccio ti bacio ti auguro una nuova vita e ti proteggerò e ti guarderò dal cielo, ti raccomando la nostra famiglia specialmente il mio caro fratellino Carlo che cio voluto tanto bene. Papà».

Renato è fucilato la mattina del 16 febbraio del 1945, ha 19 anni e due mesi. L’Italia è al quinto anno di guerra ed è da tempo in ginocchio, divisa in due e attraversata da eserciti e soldati.

Il Regime fascista manda ogni giorno in stampa pagine surreali, compresa la pubblicità di un negozio milanese che vende lampade all’acetilene «funzionanti». A poche settimane dal crollo definitivo dell’Asse, nei giorni della morte di Campi, il giornale del ras Roberto Farinacci scrive di «energica reazione germanica», di «16 fortini nemici distrutti», di «un grosso caccia statunitense affondato dai nipponici» o di «posizioni riconquistate in Italia».

Nelle sale cinematografiche cremonesi spopolano Aldo Fabrizi e Anna Magnani, Rossano Brazzi, Clara Calamai, ma chi produce uova è costretto a conferirle ai centri di ritiro. Inoltre, va osservato rigorosamente l’oscuramento dalle 18.15 alle 6.50. Si scrive in proposito: «Richiamiamo all’attenzione dei cittadini indisciplinati la recente disposizione podestarile, con la quale si prescrive - sotto pena di sanzioni — che durante l’oscuramento i pedoni debbono mantenere la destra».

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