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IL COMMENTO AL VANGELO

Tutti i figli di Dio sono nuove creature

Essere figli significherà d’ora in avanti poter ricominciare, poter respirare un’aria nuova, diventare altro rispetto alle logiche di possesso e di misura della violenza

Don Paolo Arienti

05 Gennaio 2025 - 05:15

Tutti i figli di Dio sono nuove creature

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Forma breve (Gv 1,1-5.9-14)

I vangeli non smettono di sorprendere. E non solo per il soggetto che affrontano, ma anche per le modalità delle loro narrazioni. Come non stupirsi dinanzi alle sproporzionate esaltazioni delle parabole, in cui apparenti ovvietà si trasformano in annunci sconcertanti? Come non fermarsi a riflettere su alcuni discorsi messi in bocca a Gesù rispetto allo statuto dei figli di Dio, alla visione della realtà e del suo destino? E come non prendere nota dei paradossi normativi con cui la vita di Gesù chiede di impattare il prossimo, gli altri, la storia? Giovanni apre il suo Vangelo dando voce ad un inno di straordinaria bellezza, che poco sembra avere a che fare con la concreta esperienza di un uomo che si muove nella storia, parla, agisce ed interpreta la sua vita come un riflesso dell’amore di Dio.


L’apertura è piuttosto affidata ad un affresco di proporzioni grandiose, che tocca e mette a soqquadro la distinzione metafisica tra cielo e terra, Dio e creature. Giovanni lo costruisce utilizzando alcuni criteri: alto e basso, luce e tenebre, Spirito e carne, costringendo i lettori ad alzare lo sguardo… e giungere - un po’ come ha fatto Dante nella sua Commedia - sino al cielo di Dio per poi farsi precipitare ancora sulla terra, alla luce del mistero dell’incarnazione. Un viaggio rocambolesco che solo un amore più grande può giustificare: perché solo l’avventura dell’amore può motivare un salto così impensabile, una visita così carnale perché così spirituale.

E torniamo al cuore di tutto: il cristianesimo gioca anche qui, dentro una poesia che un po’ confonde e un po’ affascina, la sua carta più pesante, di cui il Vangelo di Giovanni risulta come un lungo e complesso commento. L’incontro con la Samaritana al pozzo piuttosto che il dialogo notturno con Nicodemo, il capitolo sul pane vivo disceso dal cielo o la crisi suscitata dalla lavanda dei piedi… tutto concorre a commentare quel verbo che si è fatto carne, come recita il cuore dell’inno iniziale del quarto vangelo. Non solo una parola da osservare come forma rituale o come rubrica morale, ma anche un’azione che salva, una prossimità che illumina, una giustizia che ripara e consente di ripartire.


Accanto all’annuncio sconcertante che il Verbo si è reso visibile nella carne di un uomo, Giovanni proclama quella che potremmo definire la seconda faccia della medesima medaglia. Gli esseri umani, dentro questo dinamismo, acquistano un potere inaudito: diventare figli di Dio, cioè eredi di un cielo che sovverte le regole del potere mondano. E come il Natale proclama per la fede delle chiese cristiane che Gesù è veramente figlio di Dio, altrettanto veramente gli uomini diventano figli nel Figlio, entrando in un modo diverso di vivere anche il rapporto, così difficile, conflittuale ed affatto chiaro, con Dio e con la religione.

Essere figli significherà d’ora in avanti poter ricominciare, poter respirare un’aria nuova, diventare altro rispetto alle logiche di possesso e di misura della violenza. Perché i figli nascono inermi, come dono immeritato, non ordinato né rivendicabile. Così i figli di Dio, che diventano nuove creature per grazia, non possono più strappare nulla a Dio, nemmeno don le pratiche della religione: non nascono da carne e sangue, non vantano eredità da esibire, ma solo un dono da accogliere. Il mistero del Natale e il tempo liturgico che ne deriva, stanno qui in questi giorni ancora a ricordarci questo. Non meno del paradosso di Dio e non meno del paradosso degli uomini suoi figli. Il resto viene dopo.

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