04 Gennaio 2025 - 10:30
Un dipinto che raffigura la Cascina Palazzo, nel riquadro un bombardiere alleato
SESTO - «Sono passati ottant’anni, ma è come se fosse successo ieri: quel ronzìo indimenticabile di aerei e poi venti minuti di bombe sopra le nostre teste, da allora ogni Natale accende quel brutto ricordo nella mia memoria». 25 dicembre 1944, cascina Palazzo a Luignano, la più piccola delle frazioni di Sesto. Angelo Somenzi, classe di ferro 1938, 86enne ancora pieno di entusiasmo e di vitalità, all’epoca era un bambino di sei anni. Stava giocando sull’aia dell’azienda agricola gestita dai fratelli Lazzari quando verso le tre del pomeriggio gli angloamericani hanno sganciato i loro ordigni distruggendo buona parte del cascinale. Non morì nessuno, ci furono per fortuna solo alcuni feriti non gravi, ma si scatenò l’inferno.
Somenzi, un’autentica ‘mosca bianca’ della sua generazione (usa pc, telefonino, Facebook e WhatsApp come se fosse un ventenne) è il presidente dell’associazione Combattenti e Reduci-Sostenitori della Pace di Sesto e ricorda ogni istante di quel pomeriggio maledetto: «Non mi sfugge nessun particolare – attacca –, mio padre era militare nella campagna di Russia, la mia mamma con mio fratello erano in chiesa a Luignano perché allora a Natale facevano la funzione anche di pomeriggio e io stavo giocando vicino alla casa della cugina di mia nonna Mariarosa quando a un certo punto ho visto una formazione di aerei, saranno stati sei o sette, che sorvolavano la zona, sicché sono entrato in casa a chiamare la nonna. Dopo aver fatto qualche giro hanno iniziato a bombardare e noi siamo scappati ovunque. Ricordo che per lo spostamento d’aria mi sono trovato ad una distanza di tanti metri dal punto in cui mi trovavo all’inizio, eravamo tutti terrorizzati».
Prosegue il pensionato: «Nelle stalle c’erano ancora i bergamini intenti a mungere, sono usciti tutti a prestare soccorso perché alcune case sono state distrutte e una famiglia si è salvata perché si sono rifugiati tutti sotto al tavolo e per fortuna non è morto nessuno». Somenzi è un fiume in piena: «Si trattava quasi sicuramente di aerei alleati perché questa zona nel ‘44 e anche nei primi mesi del ‘45 c’erano i tedeschi per la loro ritirata. Ricordo bene di averne visti centinaia passare a piedi, in moto o sulle loro jeep e ogni tanto si liberavano di indumenti pesanti, lasciavano persino fucili, pistole e bombe e mano».
L'incoscienza dei bambini faceva il resto… «Ci divertivamo a giocarci con quelle armi – conferma Somenzi –. Addirittura ricordo che una bomba a mano l’avevamo messa sotto la ruota di un carro aspettando che arrivasse il contadino ad allacciare la carretta al cavallo per vedere cosa sarebbe successo; poi mi ricordo che avevamo legato un fucile ad una pianta, quello di noi più coraggioso e sbruffone lo aveva fissato con il filo di ferro legando il grilletto con un pezzo di spago che si trovava facilmente perché usato a legare la paglia; il fucile ha sparato e per il contraccolpo si è girato e per poco non ci ammazzava tutti».
Arriva anche la storia del ‘formaggio imboscato’: «In cascina a quei tempi c’era un caseificio – prosegue Somenzi – che produceva burro e provoloni e ogni tanto venivano i partigiani armati fino ai denti a fare razzia e spesso lasciavano qualche forma anche alle famiglie della cascina. Mi ricordo che il proprietario quando se ne andavano faceva il giro delle case a chiedere il rimborso di quello che secondo lui avevano ricevuto i contadini, ma mia nonna per non farlo vedere lo aveva nascosto nel porcile perché il maiale non c'era più. Vicino alla cascina– continua l’86enne – passano tre fossi: la Spinadesca, la Cavallina e la Stanghetta e con l’esplosione si era formato un piccolo lago perché l’acqua delle tre rogge defluiva tutta nello stesso punto».
Nessuna vittima, ma le pietre erano distrutte. «Ricordo che con la deflagrazione tutti i vetri delle nostre case erano andati in frantumi e noi, che già non avevamo caloriferi, ma solo una stufa a legna per scaldarci, siamo stati costretti a cercare nella neve i fogli dei giornalini scritti in inglese che gli aerei ogni tanto buttavano giù, per coprire le finestre e ripararci così dal freddo. Usavamo la colla che facevamo con la farina».
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