01 Settembre 2024 - 05:15
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: ‘Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini’. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva (ai suoi discepoli): «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Mc 7,1-8.14-15.21-23
Lasciamo oggi il complesso discorso sul pane che Giovanni cala nel suo capitolo sesto e, come per una sterzata improvvisa, siamo catapultati ancora nel Vangelo di Marco. Ritroviamo anche qui un contesto polemico, come se fin dalle origini le parole e la prassi di Gesù (gesti e silenzi, segni e scelte…) avessero rotto un equilibrio. Proprio come erano soliti fare i profeti biblici, maestri nel suscitare irritazione e nel mettere il dito nella piaga delle contraddizioni anche religiose di casa propria.
La tensione che il brano di oggi Marco registra è tra le più classiche: scaturisce dall’identità stessa dell’Ebraismo che nel suo intimo è fede fondata sulla Legge, la Torah, una parola che si fa norma di vita e che il fedele deve sempre interpellare per discernere se le proprie scelte, addirittura il suo cuore, sono pure o impure, ovvero secondo Dio o no, feconde o sterili, vive o morte. Può essere che i Vangeli, come accadrà negli scontri anche ideologici tra cristiani ed ebrei fin dai primi secoli, abbiano calcato la mano, dipingendo gli interlocutori di Gesù come degli sconsiderati, dei superstiziosi attaccati a riti senza senso. Sappiamo che in gran parte dei casi non era così… e sappiamo che l’Ebraismo, anche dentro una scrupolosità fine e precisa, non era e non è certo una cultura priva di profondità, spiritualità e amore per la giustizia.
Ma anche l’Ebraismo, come il Cristianesimo, come il cuore stesso di ogni essere umano, era ed è esposto a scivolare, a perdere l’equilibrio dello spirito e attaccarsi maniacalmente alle forme, ai riti, alle «cose della religione perché le comanda Dio», dimenticando che la più grande creazione di Dio, se esiste e se è il creatore, è la libertà dell’uomo, la sua costante capacità di trovarsi in situazioni nuove: per esse servono la luce della Parola di Dio (che diventa anche un precetto morale, un’indicazione da seguire, una attenzione da avere…) e, allo stesso tempo, l’intelligenza della creatura perché la forma non resti vuota e il cuore non possa dire: basta obbedire ciecamente.
Quante volte nella storia l’obbedienza cieca ad un comandamento, ad un ordine o ad una tradizione si è trasformata in umiliazione, sfruttamento e omicidio! Per questo Gesù si mette nella posizione scomodissima di chi rimanda al cuore dell’uomo, ovvero a quell’organo spirituale che soprattutto per la Bibbia non è la sede delle emozioni sdolcinate o dei sentimenti più stabili, ma coincide con l’interiore capacità di scegliere. L’uomo ha un cuore, profondo e palpitante, perché deve decidere da che parte stare, non può lasciarsi vivere, non può delegare ad altri il giudizio sulla vita e il coinvolgimento nel bene e nel male. Compresa la crisi, spesso dilaniante, che certe situazioni portano con sé. Lo sa bene chi cerca di andare a fondo di certe questioni che sono oggi più che mai aperte e assomigliano a ferite sanguinanti (come alcuni dilemmi di bioetica o di economia, come il delicatissimo tema della difesa e degli armamenti, come il sottilissimo confine nel campo educativo tra libertà dei figli e responsabilità dei genitori).
A volte non basta appellarsi alla legge, nemmeno a quella religiosa perché la coscienza, con le sue crisi e le sue contraddizioni, non sanguini. La tradizione può essere un artefatto solo umano e può, alla fine, trasformarsi in deserto sterile, non in promessa di vita: può essere cibo negato ad un affamato; può essere una giustizia interrotta per chi ne è privo. L’uomo, sembra ricordare il Vangelo, non può spegnere il proprio cuore. Ma nemmeno può evitare di educarlo e di avvertire che cosa da questo cuore può uscire: ecco l’avvertimento di Gesù proprio sul potere del cuore, sulla forza anche malvagia che la nostra interiorità, se lasciata al suo destino, può generare.
Il Vangelo che oggi le comunità cristiane ascoltano, è un potente avvertimento a ricordarsi che la coscienza è cosa seria; che le forme anche religiose rischiano l’ossequio sterile; che davanti alle tradizioni degli uomini, agli schemi troppo rigidi, si può finire col non vedere la verità, anche di Dio. Un avvertimento prezioso per tutti: per i credenti che hanno a che fare con un patrimonio immenso di gesti, parole e dottrine che forse poco conoscono e dietro i quali si possono comodamente difendere; ma anche per i non credenti, certo non immuni dal consegnare cervello e coscienza ad altri.
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