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I MAESTRI DELL’ACCADEMIA

«Il contrabbasso? Lo odiavo»

Dopo l’ultimo Omaggio a Cremona, Petracchi dà l’addio alla Stauffer: «Questa città è un po’ mia, mi mancherà»

Giulio Solzi Gaboardi

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11 Giugno 2024 - 05:10

«Il contrabbasso? Lo odiavo»

Bruno Giuranna e Salvatore Accardo alla festa per Franco Petracchi (© Fondazione Stauffer)

CREMONA - Chiudiamo il cerchio di interviste dedicate ai maestri dell’Accademia Stauffer con Franco Petracchi, docente di contrabbasso dalle origini dell’Accademia, nonché da sempre colonna portante dei corsi di formazione della Stauffer. Dopo quasi quarant’anni di insegnamento, ha deciso di ritirarsi, ancora nel pieno delle sue forze, delle sue energie e del suo intramontabile sorriso toscano. Punto di riferimento del mondo del contrabbasso e dell’insegnamento, Petracchi non ha rimorsi né ripensamenti, ma si diverte a raccontare aneddoti e a ricordare con affetto questi decenni felici a Cremona, di cui è, tra l’altro, cittadino onorario dall’anno scorso.

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Come ha vissuto il grande ritorno di Omaggio a Cremona, nonché il suo concerto d’addio?
«Con molta emozione. Questo ritorno ha ripristinato una grande tradizione, che spero che ora resti radicata. Mi spiace solo che durante questa sospensione, la cittadinanza non si sia dispiaciuta. Noi abbiamo sempre dato l’anima, per noi il desiderio di suonare per Cremona è davvero profondo, anche perché siamo cittadini onorari».

Lei si sente cremonese?
«Sì. Ho fatto un calcolo: su quarant’anni alla Stauffer, devo aver passato in totale sei o sette anni a Cremona».

Cosa è stata per lei la Stauffer in questi anni?
«Mi ha dato la possibilità di esprimere al meglio la mia passione per l’insegnamento. Qui sono nati molti dei maggiori musicisti italiani, vincendo premi internazionali e diventando maestri in Conservatorio. La Stauffer è un grande mecenate».

Da cosa deriva la decisione di lasciare l’insegnamento?
«Ho una venerabile età di 87 anni! Il mio strumento è… atletico! E si può suonare fino a 60/65 anni, poi diventa problematico. Le corde diventano dure, cominciano le prime manifestazioni di artrosi… A me invece è andata bene: sono stato baciato da Dio. Così ho deciso di lasciare nel pieno della mia attività. Le mie mani vanno benissimo, potrei suonare ancora come trent’anni fa. Anche se certi viaggi ormai sono diventati impegnativi, tra taxi, treni e aerei che non sempre accettano volentieri il mio strumento».

Parliamo proprio di questo strumento. Perché il contrabbasso?
«La risposta che danno tutti: ‘Lo strumento ha scelto me!’. Non è così. L’ho sempre odiato questo strumento, fin da bambino. Cominciai con la batteria a otto anni. Quando vinsi la borsa di studio per pianisti all’Accademia di Santa Cecilia a Roma, andai e mi ‘costrinsero’ a studiare il contrabbasso: ero il più alto e con le mani più lunghe, e il docente cercava allievi. Dissi di no, poi mio padre mi convinse ad accettare. Dopo tre anni, cominciò a piacermi».

Ma si è innamorato a un certo punto?
«Suonavamo in cappella, dove spesso era presente il compositore Ildebrando Pizzetti, che apprezzò il mio suono senza vedermi, credendomi un violoncellista. Rimase stupito e disse: ‘Mi hai fregato, mi sembrava il più bel violoncello che avessi mai sentito’».

E cosa sono le famose ‘contrabbassate’?
«Suonavamo arrangiamenti divertenti dalla Carmen o dai valzer di Strauss in venti, trenta contrabbassisti, tra allievi ed ex allievi. Il Teatro Ponchielli faceva fatica a contenerci tutti!».

E gli ‘amplessi’?
«Mio padre fece un debito in banca per comprarmi lo strumento che mi ha poi seguito tutta la vita. In quegli anni uscì Totò a colori, in cui veniva inquadrato un contrabbasso dalle fattezze femminili, con reggiseno e mutandine. Le misi il nome di Giuseppina, come la moglie di Napoleone! Quando ‘abbracciavo’ il mio strumento, li chiamavo ‘amplessi’».

Quindi il Signor Rossi (dal liutaio Gaetano Rossi, ndr) subì un cambio di sesso. E ora che non lo suonerà più?
«Devo capire che farne. L’ho suonato solo io, per tutto il mondo, per settant’anni. Quando lo suonava qualcun altro, poi riprendendolo in mano suonava in modo diverso. O io vivevo delle crisi di gelosia o è lo strumento che fa i capricci. Dovrò decidere: non venderlo, darlo in comodato, cederlo a qualche ente o museo».

Ci parli un po’ del suo successore, Alberto Bocini.
«Beh, è mio allievo prediletto! Ha un gran peso internazionale, ha preso il mio posto anche a Ginevra. Tanti altri sarebbero stati comunque meritevoli, ma lui ultimamente si è dedicato molto all’insegnamento».

Lei ha preferito l’insegnamento o l’esecuzione?
«Li ho amati allo stesso modo. Ho avuto grandi maestri in direzione d’orchestra e direzione, così ho sentito una certa vocazione per l’insegnamento. Ma ho sempre dato la stessa passione in tutto».

Le mancherà qualcosa di tutto questo? Di Cremona? Della Stauffer?
«No!… Sì!… Nì! Devo ancora metabolizzare. Ora accompagnerò alcuni ragazzi fino al Premio Bottesini, poi basta. Voglio finire finché posso divertirmi ed emozionarmi suonando».

E quest’ultima classe com’è stata?
«Tra le migliori che abbia mai avuto. Intelligenti, preparati, appassionati. Quasi tutti hanno un avvenire sicuro».

Un’ultima parola sui suoi colleghi maestri?
«Sono stati compagni di una vita. La mia seconda famiglia, sia a livello professionale che umano. Infine, ho avuto un grande collaboratore: Roberto Paruzzo. Un grande pianista che si è dedicato all’accompagnamento e a cui molti allievi sono debitori, per la sua disponibilità e generosità».

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