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IL COMMENTO AL VANGELO

Obbedire all'amore

Il legame con Cristo secondo Giovanni è cosa da vivo a vivi; in ballo c’è la vita, anzi la gioia piena, ovvero il senso sostanziale del nostro esistere

05 Maggio 2024 - 05:20

Obbedire all'amore

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Gv 15,9-17

I cinquanta giorni pasquali offrono una logica interna tutta da scoprire, non sempre facile né immediata. Intuitivamente, si potrebbe dire che il tempo di Pasqua, l’unico “vero” tempo della Chiesa rispetto alla pedagogia degli altri tempi (l’Avvento o la Quaresima… in fondo hanno il compito di aiutarci a sottolineare alcuni aspetti della vita di fede), ha lo scopo di proclamare l’alleluia: che Gesù è risorto, che la sua vita non si è interrotta con la croce; che le promesse paradossali dell’amore di Dio restano fedelmente confermate.

Ma poi le settimane pasquali assumono anche altre sfumature: non si sono fermate alla constatazione che Gesù è ancora vivo, limitandosi ad assegnare questo compito ad un incredulo e ravveduto Tommaso; hanno insistito sui poteri pasquali che il risorto ha lasciato alla sua comunità (e spicca tra tutti il peso specifico del perdono dei peccati, la liberazione dal male che già Matteo aveva incastonato nella parte conclusiva del Padre Nostro); hanno poi rilanciato attraverso due potenti metafore un legame speciale, anzi essenziale e vitale, tra un Gesù pastore e vigna e i discepoli pecore che ascoltano e tralci che portano frutti.

Nelle prossime domeniche, dentro la dinamica di un Cristo che “se ne va in cielo” e lascia lo spazio all’altro testimone, lo Spirito, ci verrà proposto di meditare sulla presenza proprio dello Spirito, che anima, trasforma, rende la comunità trasparenza di Cristo. E ci dovremo chiedere se e come questo per noi sia proprio vero! Ma oggi abitiamo ancora quel legame, quel “rimanere” che viene ulteriormente specificato, nelle sue grandi implicazioni. E visto che la mediazione più potente di questo snodo è la parola “amore”, quel che ci viene detto non può non essere complicato, aperto, magnifico e straordinariamente fecondo. Il legame con Cristo secondo Giovanni è cosa da vivo a vivi; in ballo c’è la vita, anzi la gioia piena, ovvero il senso sostanziale del nostro esistere. Non perché Gesù assorba prepotentemente ogni libertà, ma piuttosto perché il suo gesto d’amore estremo, il dare la vita per gli amici coinvolgendo addirittura Dio, costituisce la radice di ogni offerta, di ogni disponibilità.

Ecco allora il brano evangelico di oggi che fa ancora parte del discorso di addio di Gesù. Conosciamo l’atmosfera in cui è stato pronunciato e possiamo intuire anche il grado di ansia e di paura che in quella stanza del Cenacolo si sarà respirato. A rendere tutto ancora più denso, ecco questo passaggio, davvero difficile e ricco di porte di accesso al mistero.

Giovanni crea una specie di reticolo, in cui la corrente elettrica di quella sera passa, come attraverso un materiale conduttore, e tiene insieme quanto razionalmente ci verrebbe voglia di separare e tenere ben distinto: le parole comandamenti, amore, gioia, amicizia, comando… si rincorrono, costringendoci a forzare quanto abbiamo nel cuore e soprattutto nella testa: che obbedire non sia compatibile con amare; che l’amicizia sia sinonimo di libertà elettiva; e che l’amore non coincida mai con l’esproprio di sé, quanto piuttosto con la nostra autoconservazione.

Per molti, e forse giustamente, queste polarità vanno mantenute. Lo ricorda una fetta importante della psicologia che, legittimamente, si preoccupa di custodire l’identità e l’integrità di chi si vede minacciato da una crisi, da un legame malsano, da una violenza. Ma ciò che caratterizza il reticolo giovanneo non è una forza esterna obbligante, non è un atto di prepotenza. Quel comandamento da osservare è la forza liberante dell’amore e coincide con la consegna del nostro cuore non a ciò che distrugge noi e gli altri, ma a ciò che riconosce, rispetta, rende libero, degno di esistere. Questo è l’amore vero. Per questo Gesù è entrato nel mistero teologico della croce, dove anche Dio, in qualche modo, soffre, muore, si consegna, dà prova dell’amore più grande. E allora per Giovanni non è un problema che Gesù ordini di amare, che leghi comandamento a gioia, facendo saltare le convenzioni logiche dei nostri ordini mentali.

Il Vangelo introduce il lettore alle conseguenze paradossali del rapporto con Gesù che va oltre la creazione di un sistema giuridico e oltre la ragionevolezza di una religione. Perché in ballo c’è il diventare figli di Dio, l’essere corpo di Cristo nella storia. E questo non può assomigliare ad un teorema facile e logico, quanto piuttosto alla compromissione radicale della vita.

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