31 Maggio 2022 - 08:48
Boris Pahor nel suo studio con Ilde Bottoli
CREMONA - È morto la notte scorsa, nella sua casa di Prosecco arrampicata sulle alture di Trieste, da dove si poteva vedere il mare e il vento ne portava il profumo: Boris Pahor aveva 108 anni - ne avrebbe compiuti 109 il 26 agosto - ed era un grande,
Ha attraversato il Novecento, compresi gli orrori che in una zona di confine non possono che amplificarsi. Quando è nato, nel 1913, Trieste era il porto dell’impero austro-ungarico, crocevia di merci e di genti, religioni, etnie e culture.
Di famiglia slovena piccolo-borghese, Pahor sopravvive bambino all’epidemia di spagnola e ha tra i suoi primi ricordi il rogo del Narodni Dom, la Casa della cultura della comunità slovena data alle fiamme dagli squadristi fascisti: era sede di biblioteche e sale da concerto, un bellissimo teatro. Ci mette quasi un giorno a bruciare, il Narodni Dom, con i fascisti che si agitano «come selvaggi attorno al grande rogo», dopo aver tagliato ai pompieri le pompe dell’acqua.
È solo l’inizio di una persecuzione che investe le comunità slovena e croata, cui viene imposta l’italianizzazione forzata, impedito di frequentare le proprie scuole, parlare e scrivere la propria lingua, addirittura tenersi il proprio nome. Altrimenti può capitare come a Julka, cui sfugge una parola in classe: e allora il maestro la prende per un orecchio, la trascina per l’aula fino all’attaccapanni e la lascia lì, appesa a un gancio per le sue lunghe trecce.
È una sopraffazione, ricorderà sempre Pahor, che avrà come epilogo inevitabile i campi di concentramento, le persone ridotte a numeri, a Stücken, pezzi di nessun valore nella contabilità di morte del sistema nazi-fascista.
Pahor cresce in questo clima violento, coltivando in segreto la cultura d’origine e studiando al seminario di Capodistria, che offre un minimo di protezione. Gli anni del servizio militare coincidono con la guerra e portano Pahor prima in Libia, poi a fare l’interprete degli ufficiali jugoslavi prigionieri. Dopo l’8 settembre del ‘43 riesce a raggiungere Trieste e a entrare nella Resistenza. Arrestato, passa gli ultimi mesi di guerra da un Lager all’altro, tra Francia e Germania. Il periodo di prigionia più lungo, Pahor lo trascorre a Natzweiler-Struthof, sui Vosgi, non lontano da Strasburgo.
Si salva perché conosce le lingue e gli vengono risparmiati i lavori più pesanti, che annichiliscono e portano alla morte. Ne scriverà in Necropoli, un capolavoro assoluto e dalla storia editoriale assurda, riflesso di come Pahor sia stato a lungo ignorato da una cultura ufficiale dallo sguardo miope: pubblicato per la prima volta nel ‘67, il romanzo viene tradotto in italiano nel 1997 da una casa editrice locale e solo nel 2008 Fazi lo fa conoscere al pubblico italiano.
Nel frattempo, Pahor è già stato candidato al Nobel, ha vinto premi in tutta Europa ed è stato tradotto anche in finlandese. Da quel momento comincia la fortuna editoriale dello scrittore, di cui in italiano, oltre a Necropoli, vengono tradotti tra gli altri Il rogo nel porto, Oscuramento, Qui è proibito parlare, Una primavera difficile, La città nel golfo e Così ho vissuto.
La lingua slovena, quella lingua a lungo vietata e mantenuta viva clandestinamente, quella lingua con cui «ha imparato ad amare i genitori e a conoscere il mondo» diventa per Pahor strumento di memoria e testimonianza dell’universo concentrazionario, ma anche dello smarrimento di una comunità perseguitata, diventata da un giorno all’altro straniera in patria, privata dei più elementari diritti identitari.
La sua è una scrittura affilata, troppo onesta per fare sconti e capace di una visionarietà che riesce a dare conto dell’indicibile. Pahor scrive contro il fascismo, contro la dittatura comunista di Tito, contro l’incapacità di leggere la tragedia delle foibe all’interno di una storia complicata: l’autobiografia si intreccia con la storia e con la volontà di non dimenticare.
L’impegno nelle scuole nasce da questo, dal desiderio di passare alle nuove generazioni una consapevolezza in più.
Boris Pahor ha incontrato per ben due volte gli studenti cremonesi, nel 2009 e nel 2013. La sua testimonianza, in occasione della Giornata della Memoria, era il preludio alla visita al Memoriale del Lager di Natzweiler-Struthof, dove Boris Pahor trascorse buona parte della sua deportazione che racconterà in Necropoli, non a torto considerato il suo capolavoro.
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