08 Giugno 2025 - 05:30
Sergio Ramelli e Alberto Brasili erano due ragazzi negli anni Settanta del secolo scorso. Ideologicamente agli antipodi, ugualmente non hanno avuto la possibilità di vedere l’arrivo del nuovo millennio. Uccisi pochi giorni l’uno dall’altro nel 1975 da una insensata violenza politica. Quella dei cosiddetti anni di piombo (o della strategia della tensione, a seconda della visione politica dell’epoca) che hanno lastricato di sangue vent’anni di storia italiana. Fronti opposti, identico destino. Nel periodo compreso tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta si sono contati oltre 400 morti a causa di attentati e omicidi terroristici. Hanno pianto vittime destra e sinistra, ma anche le forze dell’ordine, gli apparati dello Stato, il mondo della cultura e del giornalismo.
Oggi, mezzo secolo dopo, non tutta la verità storica è stata scritta, anche se quella giudiziaria ha fatto luce su molti singoli episodi. Ma quel che conta di più, è che ancora oggi quella fase continua a essere divisiva, strumentalizzata dalla necessità di segnare il campo in un clima di scontro politico sempre meno concentrato sui contenuti e sempre più in cerca di eroi e simboli da esibire come gonfaloni. Quella fase, invece dovrebbe essere consegnata alla Storia, senza fare sconti sulle responsabilità individuali, di gruppo e delle istituzioni, in un’operazione di pacificazione sociale.
In questo senso è positivamente significativo un appuntamento che si terrà a Cremona domani sera. La presentazione del libro ‘Sergio Ramelli, una storia che fa ancora paura’ con Guido Giraudo, uno dei coautori. Organizzato da FdI, in Comune alle 18, vedrà la partecipazione di Luciano Pizzetti, presidente del consiglio comunale e peso massimo della sinistra, a testimonianza della volontà di capire piuttosto che di accusare.
Una volontà espressa anche dagli organizzatori dell’incontro. Forse conta anche il fatto che a Cremona quel periodo ha visto manifestazioni di tensione e attività di gruppi estremisti nell’uno e nell’altro senso, anche se non è stata un centro principale di eventi criminosi come Roma o Milano. Città in cui a sinistra si vedevano raid di squadre armate di pesanti chiavi inglesi e a destra di ‘ganci’, gli uncini dei camalli del porto di Genova. Violenti scontri notturni erano la triste normalità, volti sfregiati e teste rotte il risultato. Bastava poco per scatenare la violenza. Lo testimoniano le drammatiche cronache di quei giorni.
Esemplari in questo senso le storie di Sergio Ramelli e Alberto Brasili. Il primo, studente di chimica industriale e da poco militante del Fronte della Gioventù. ‘Colpevole’ di aver criticato in un tema le Brigate Rosse. Noto all’ufficio politico della Questura di Milano per affissione abusiva, non aveva precedenti penali, non aveva partecipato ad aggressioni, risse o minacce. Quel tema gli costò la vita. Come stabilito dall’inchiesta, dopo essere stato sottratto al professore, il suo elaborato fu affisso in una bacheca scolastica e usato come elemento accusatorio in una sorta di processo sommario e informale tenuto dagli studenti con la partecipazione di professori: Ramelli fu ‘condannato’ a ritirarsi dall’istituto in quanto «picchiatore nero».
Ma questo non era ancora abbastanza: il 13 marzo 1975 è stato aggredito in via Amadeo mentre parcheggiava il motorino da alcuni militanti della sinistra extraparlamentare. Con il cranio spappolato a colpi di chiave inglese, morì dopo 47 giorni di agonia. I responsabili furono identificati e condannati dieci anni dopo l’accaduto. Ucciso per un tema. Ma, si sa, violenza chiama violenza.
Pochi chilometri più in là, in piazza Santo Stefano e qualche giorno dopo, il 25 maggio, a perdere la vita fu Alberto Brasili, studente lavoratore, accoltellato da cinque neofascisti per la sola ‘colpa’ di avere staccato da un palo della luce un adesivo elettorale del Msi. Era insieme alla fidanzata Lucia Corna, rimasta gravemente ferita e salvata dopo lunghi interventi chirurgici. Nato in una famiglia dalle condizioni economiche precarie, fin da quando compì quattordici anni, Brasili iniziò ad alternare lo studio al lavoro, contribuendo al sostentamento della propria famiglia. Di giorno commesso, di sera ai corsi dell’istituto professionale Settembrini. Nel clima esasperato di quel periodo, partecipò alle manifestazioni per il diritto allo studio e alla conseguente occupazione dell’istituto per l’introduzione del biennio sperimentale. Non era un militante di movimenti organizzati, né un estremista politico ma semplice simpatizzante della sinistra, senza avere mai avuto un impegno politico in senso organico.
Due casi esemplari. E allora, come monito e insegnamento, riprendiamo le parole di due esponenti politici di opposti schieramenti relativamente a queste due tragedie, il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il presidente del Senato Ignazio La Russa.
Sala: «Credo che sia importante fare memoria di tutte le vittime di quel periodo storico. Per questo sono stato da Ramelli, in Piazza Santo Stefano, da Claudio Varalli, poi da Fausto e Iaio (Ndr: i diciottenni Fausto Tinelli e Lorenzo Iaio Iannucci frequentatori del centro sociale Leoncavallo uccisi il 18 marzo 1978 sulla cui morte sono state di recente riaperte le indagini) e da Brasili. La storia non si può cancellare, si può solo imparare. Nella mia testa non è che faccio una gerarchia delle vittime, anzi forse Brasili è quella che, non essendo premeditata, da un certo punto di vista è ancora più incomprensibile».
La Russa, nel recente Giorno della memoria, dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi, nell’aula di Montecitorio: «Sergio Ramelli, un giovane studente, militante del Fronte della Gioventù, assassinato cinquant’anni fa a colpi di chiave inglese. E poi Fausto Tinelli e Lorenzo Iaio Iannucci: due ragazzi del Leoncavallo per il cui omicidio, avvenuto nel 1978, la magistratura ha da poco riaperto le indagini. Una notizia che ho accolto con favore e che spero possa portare piena luce. Sergio, Fausto e Lorenzo: ricordiamoli oggi, ricordiamoli insieme: un ragazzo di destra e due di sinistra. Ricordiamoli e riconosciamo senza riserve il loro sacrificio e quello di tanti altri giovani di ogni colore politico che hanno pagato con la vita la libertà delle proprie idee e il diritto costituzionale di poterle esprimere».
Sala ha anche spiegato che è sempre «aperta nella mia testa e nelle mie intenzioni» l’idea di dedicare a tutte le vittime del terrorismo un luogo della città, «vedo che non riscuote grande successo, però io continuerò a pensarci, è sempre nelle mie intenzioni». Non sarebbe male se fosse anche nelle intenzioni di qualche amministratore di casa nostra. Non possiamo permetterci di pensare che il lascito degli anni di piombo siano... cervelli di piombo.
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