03 Marzo 2025 - 05:25
Alice Fanti a Cremona e in Guatemala
CREMONA - All’origine della sua avventura, c’è un clic casuale del mouse. «Verso la fine della quarta superiore mi sono seduta davanti al computer e sul sito del ministero dell’Istruzione ho cercato nel motore di ricerca, non so perché, la parola sviluppo. Pensare che volevo fare la farmacista». Invece Alice Fanti, cremonese quarantenne, è diventata una cooperante. E dopo aver girato il mondo, le è stato affidato il compito, nonostante la giovane età, di direttrice di Cefa-Il seme della solidarietà, storica organizzazione non governativa, con sede a Bologna, impegnata nella lotta alla fame e alla povertà nei Paesi più bisognosi. Con Cefa ha lavorato, tempo fa, Alberto Trentini, il cooperante italiano detenuto dal 15 novembre 2024 in una prigione di Caracas, in Venezuela.
«È sempre rimasto in contatto con noi. Lo conosco bene, è un mio caro amico. Un collega professionale, attento, coscienzioso: una garanzia. Tutti noi ci stiamo mobilitando per chiederne la scarcerazione. Mi sento con il suo avvocato, Alessandra Ballerini, lo stesso di Giulio Regeni». La prima volta di Alice sul campo è stata, quando non era ancora al Cefa, in Guatemala. «Ho fatto l’assistente della responsabile di un progetto, gestito dal ministero degli Affari esteri, per il sostegno delle cooperative di produzione del caffè. Ho colto l’occasione per presentare una tesi sul ruolo delle donne in quella realtà».
Si è laureata in Cooperazione internazionale all’Università di Bologna, sua città d’adozione. Dopo il Guatemala, l’Ecuador, che conosce bene. «Ho trascorso una notte in un villaggio indigeno sperduto della Foresta Amazzonica. Ero con lui, Alberto: abbiamo chiacchierato a lungo circondati dal frastuono degli uccelli e dei grilli». Dal Sud America all’Africa, con la stessa passione. «In Tanzania ho incontrato donne coraggiosissime che in mezzo al nulla gestivano sportelli informativi su temi come la salute e lo facevano in una società maschilista. In Tunisia, dalla terrazza di un bar ho visto sfilare, nel primo anniversario della loro Primavera araba, un corteo di giovani ancora pieni di speranza».
Ha viaggiato molto, ma la terra che si porta nel cuore è l’Etiopia. E anche lì è tornata di frequente.
«Ho toccato con mano la miseria più estrema. E mi hanno fatto impressione i danni provocati dal cambiamento climatico: siccità senza fine alternate a inondazioni fortissime». Il primo maggio 2021, la nomina a direttrice. Dai progetti e dall’operatività alla scrivania, più mente che braccio. «La nostra onlus è nata negli anni Settanta sulla spinta delle cooperative agricole dell’Emilia Romagna che volevano esportare il loro modello di sviluppo».
La struttura dell’associazione è composta da 19 operatori in sede, 30-35 cooperanti italiani all’estero, 200 collaboratori sparsi nei continenti. «Siamo presenti in 12 Paesi oltre all’Italia, dove tentiamo di tenere alta l’attenzione su questioni culturali come la discriminazione di genere e il razzismo. La storia che mi ha preceduto è ricca e io mi sono inserita in quella traiettoria, poi ci ho messo del mio provando a restare in questo solco e aprendoci contemporaneamente alle tematiche imposte dall’attualità. E oggi siamo diventati un bel gruppo di giovani». Il loro nuovo sguardo si integra con quello lasciato in eredità da chi li ha preceduti.
«Abbiamo inaugurato da poco un acquedotto in Kenya, 43 chilometri di tubature che hanno portato l’acqua in una regione remota. Una zona senza strade dove prima per abbeverarsi bisognava percorrere due ore a piedi da ogni villaggio lungo piccoli sentieri tortuosi». Per realizzare questo e gli altri interventi servono risorse economiche non da poco. «Il nostro bilancio annuale è di dieci milioni di euro, di cui il 90 per cento da fondi pubblici attraverso la partecipazione a bandi e il dieci per cento, 1 milione, da contributi privati: singoli, aziende e fondazioni». Sotto i riflettori ci sono molto le ong impegnate nei salvataggi in mare e meno le altre, la cui azione è comunque legata indirettamente all'emergenza immigrazione.
«Tanti vorrebbero restare dove vivono, ma il problema è che non ne hanno le opportunità. Dobbiamo fare in modo che la scelta di andarsene sia volontaria e non obbligatoria». Sono tempi duri per la galassia delle ong, ancora di più da quando Trump ha congelato, con la firma su uno dei suoi famosi ordini esecutivi, tutti i programmi di aiuti nordamericani all’estero. «Quei finanziamenti rappresentavano il 40 per cento della somma totale a livello mondiale. Si tratta di un bruttissimo segnale che altri Paesi potrebbero seguire. La Ue fatica a stare al passo, è ripiegata su questioni interne. Molte nazioni africane dipendono proprio dall’Europa oltre che dagli Stati Uniti». Il modo di considerare la solidarietà internazionale è cambiato.
«Si avverte diffidenza. Anche se abbiamo una base consolidata di sostenitori che crede in quello che facciamo, non è facile per noi parlare di argomenti complessi e delicati facendolo nel nostro stile, senza ricorrere a slogan e formule semplicistiche». Non è solo una faccenda di comunicazione, di linguaggio. «È un mondo dove ti fanno credere che si deve avere paura di tutto quanto c’è appena fuori dal cortile di casa. La retorica che ha vinto nell’opinione pubblica è quella del terrore, la cui conseguenza è la chiusura. E questo è il motivo che ci porta a lavorare anche qui, in Italia».
Ammette la fatica del momento, ma il suo slancio per gli altri non ne è stato scalfito. «Sono contenta perché c’è un allineamento forte tra i valori personali in cui credo e il mio impegno in una società che sembra andare in senso contrario». Alice torna spesso, con la piccola figlia Edera, a Cremona, dai genitori, Mauro e Raffaella. Lo ha fatto anche di recente. In piazza del Comune, in un giorno di mercato, ha esposto un cartello verde con la fotografia di un ragazzo con un filo di barba e la scritta ‘Alberto Trentini libero’. Il suo collega, il suo amico.
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