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IL BOMBARDAMENTO DEL 1944

«Mio papà schiacciato dalle macerie di casa. Trovato dopo 12 giorni»

Umberto Luccini aveva 14 anni e abitava a Porta Milano. Il padre Giovanni faceva l’oste

Barbara Caffi

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18 Febbraio 2025 - 10:57

«Mio papà schiacciato dalle macerie di casa. Trovato dopo 12 giorni»

CREMONA - «Abbiamo seguito l’istinto, ognuno di noi è scappato in direzioni diverse. Io, mia mamma e mia sorella ci siamo salvati. Papà invece è rimasto sotto le macerie». Umberto Luccini, 95 anni compiuti da meno di un mese, ricorda quasi tutto di quel 10 luglio del 1944 - il giorno del bombardamento americano - che gli ha stravolto la vita. Ricorda, racconta. Ogni tanto sorride, qualche volta la voce si incrina: sono trascorsi più di ottant’anni, ma per il dolore e la commozione il tempo sembra non essere passato.

UN LUNEDÌ D'ESTATE

Quel giorno era un lunedì d’estate, un lunedì di guerra. Le donne che si arrabattano con le tessere annonarie per portare a casa qualcosa da mangiare, i ragazzini che approfittano delle scuole chiuse per giocare in strada o nei cortili. L’attacco su Cremona è nell’aria da giorni. Il Regime fascista insiste quasi quotidianamente con obblighi e divieti che i cremonesi devono osservare in caso di bombardamento e invita i donatori di sangue a tenersi sempre pronti. Le regole sull’oscuramento sono rigide, severissime e appena cala il sole si devono chiudere gli scuri e coprire anche le fessure. «Sembrava si sapesse - conferma Luccini -. Forse i partigiani e chi manteneva i collegamenti con loro avevano qualche informazione in più». O forse, più semplicemente si era capito che il ponte sul Po e la linea ferroviaria mettevano la città tra gli obiettivi militari.


«Ricordo che i tedeschi avevano messo a porta Milano dei gruppi nebbiogeni -dice ancora Luccini -: avrebbero dovuto fare una specie di nebbia per nascondere la zona ma non sono entrati in funzione. Non so se sarebbero stati davvero efficaci, perché la nebbia avrebbe sì nascosto ma anche segnalato. Porta Milano non era come è adesso, passavano non più di tre o quattro macchine all’ora». C’erano negozi su tutti i lati e una specie di rivalità tra gli esercizi commerciali da una parte e dall’altra della piazza. «Papà aveva un’osteria sul lato sinistro venendo dal centro - prosegue Luccini -. La nostra è stata l’unica casa bombardata da quella parte, perché i danni maggiori ci sono stati sull’altro lato. Quel giorno, a metà mattina, abbiamo sentito cadere le prime bombe vicino alla stazione e il rumore lo ricordo ancora adesso. Mia sorella Luisa era in bicicletta, ma si è fermata subito, trovando rifugio nella casa dei Piacenza che non è stata toccata dalle bombe. C’era una panetteria lì vicino e fuori c’era un carro che aveva appena trasportato della farina e attaccati c’erano due cavalli, di quelli grossi da tiro. Quando ho recuperato la bicicletta ricordo che era tutta sporca del sangue e del pelo di quei poveri cavalli. Mia mamma è arrivata fino all’inizio di via Giardino e quando l’ho vista ho pensato che dovesse correre più lontano, quella casa che c’è all’angolo io l’ho vista tremare».

RIFUGIO A SANT'AMBROGIO

Umberto corre, corre, corre più che può. A Sant’Ambrogio si ferma, trova rifugio nello scantinato insieme ad altre persone. «Papà invece è sceso nella nostra cantina, pensava di essere al sicuro lì», ricorda Luccini. «Quella mattina era con un collega. Stavano aspettando il tramvai che andava verso Casalmaggiore per andare a comprare del vino - aggiunge Luccini -. La nostra era un’osteria, quando si trovava da mangiare si faceva anche trattoria ma era sempre più difficile avere del cibo». La cantina si trasforma però in una trappola mortale. Non così per i vicini di casa, a pochi metri di distanza. Il loro rifugio resta in piedi e poi al buio e in mezzo ai detriti riescono a raggiungere la bocca di lupo che serviva per scaricare il carbone e da lì a uscire in strada. Per Giovanni Luccini non c’è nulla da fare. Aveva solo 43 anni, la vita ancora da vivere.


«Lui e il suo amico li hanno trovati solo dodici giorni dopo, sono morti abbracciati. Io non sono andato a scavare tra le macerie. Lo hanno fatto mio nonno e mio zio, io no perché avevo troppa paura. Continuavo a sentire il rumore degli aerei», dice Umberto, ritornando un ragazzino di 14 anni. Quello stesso giorno, quando finalmente in città torna il silenzio - ma non nelle zone colpite dove si raccolgono i morti e si soccorrono i feriti - Umberto esce dal suo nascondiglio. Incrocia un ragazzo che lo avvisa che casa sua non c’è più e solo alle quattro del pomeriggio raggiunge il prato alle porte di Cremona, vicino al Naviglio, dove nel frattempo si sono ritrovate la mamma e la sorella. «Mi credevano morto - dice Luccini -, può immaginare la gioia di mia mamma quando ci siamo rivisti. Cosa ho fatto in quelle ore? Non lo so, non ricordo niente. So solo che poi abbiamo raggiunto una cascina fuori città e qualche giorno dopo un’altra. Ogni tanto veniva a trovarci il figlio dell’amico del papà, faceva il seminarista anche se credo che prete non lo sia mai diventato e poi ha fatto il professore».

GENEROSITÀ E UMILIAZIONE

«I contadini ci hanno accolto con un affetto per cui li ringrazio ancora adesso - prosegue il racconto di Luccini -. Ci hanno dato il loro letto e si sono tolti il pane di bocca per aiutarci e non lo dico per dire. Dai signori, invece, non è arrivato niente. Ricordo che un giorno sono passati a guardarci... Ero solo un ragazzo e l’ho capito dopo che è stato un momento umiliante per noi, per mia madre soprattutto». La famiglia ha perso tutto. Giovanni è morto, della casa restano solo macerie. «Sembrava si fossero salvate delle lenzuola chiuse in un armadio, ma quando le abbiamo aperte si è visto che erano tutte bucate - dice il signor Luccini -. So che tra i primi a correre a porta Milano ci sono stati i parroci di Sant’Ilario, don Giuseppe Piazzi, e di Sant’Agata, don Guido Astori. Dei fascisti non si è fatto vivo nessuno, nessuno ci ha chiesto se avevamo bisogno di qualcosa o se sapevamo dove andare a dormire, come campare». Si può sopravvivere a tutto, anche al dolore e alla fatica. In qualche modo e con l’aiuto dei parenti mamma Teresa tira avanti. Dopo la guerra, aprirà un’osteria dalle parti di piazza Castello, il bancone è quello che è, rivestito di compensato: «Credo che molti venissero da noi a prendere il vino per darle una mano, anche questa è una solidarietà che non dimentico», dice Luccini.

«ERANO CATTIVI»

Tanti i ricordi, in ordine sparso. Il passaggio dei militari italiani avviati alla deportazione dopo l’8 settembre («Qualcuno è riuscito a scappare, chi poteva li nascondeva e dava gli abiti civili»), l’arrivo dei tedeschi all’osteria («Erano cattivi, avevamo paura di loro. Davano ordini, chiedevano. Nessuno si è mai sognato di farli pagare, speravamo solo che se ne andassero presto»), qualche ragazzino di allora. E naturalmente il papà: «Amava la musica e l’opera, gli piaceva stare in mezzo alla gente. Per molto tempo ha cercato di convincermi a suonare il violino».

«Per anni - aggiunge - ho pensato che quello americano fosse un bombardamento di tipo terroristico. Invece ho capito dopo che si è trattato di un errore, l’obiettivo era la ferrovia. Se avessero voluto colpire ancora di più la popolazione, avrebbero bombardato di notte o sarebbero andati più verso il centro e avrebbero fatto ancora più vittime». Non furono pochi, i morti. Il bilancio ufficiale è di centotrentadue vittime, tra cui tredici militari tedeschi e una ventina di ferrovieri, e di almeno ottantadue feriti. Per la città è un dolore ancora vivo, che il tempo ha solo in parte lenito. E non solo. «Sono passati più di ottant’anni - si rammarica Umberto Luccini - e siamo ancora qui a parlare di guerre».

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