22 Agosto 2024 - 05:25
CREMONA - La vita accanto è la vita che la piccola Rebecca non può vivere, che le è preclusa, costretta a un isolamento forzato per vergogna di quell’enorme angioma che le deturpa il volto e che la madre vuole nascondere. La vita accanto è l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, nelle sale da oggi. La pellicola, dopo l’anteprima all’arena Giardino, apre la stagione del Filo ed è in programma anche a SpazioCinema. Tratto dall’omonimo romanzo di Mariapia Veladiano, il film è stato presentato al 77° Festival di Locarno, dove il regista di origini cremasche ha ottenuto il Pardo d’Oro alla carriera: «È stata una grande emozione tornare a Locarno dove nel 1980 vinsi col mio primo film, Maledetti vi amerò – racconta il regista -. Ho trovato tanti amici, ho avuto una testimonianza di affetto e stima che mi ha commosso».
E come è stato accolto La vita accanto?
«Le prime recensioni della critica straniera sono più che positive. Piace il fatto che pur avendo una forma classica si avverte comunque qualcosa di nuovo, se non di inatteso».
Ovvero, in che senso?
«È come in un pezzo di musica. La forma della sinfonia è codificata, ma è l’apporto che l’interprete dà a fare la differenza. È questo il bello dell’arte in genere».
La musica ha un ruolo da protagonista nel romanzo come nel film. È per certi versi salvifica.
«Il talento artistico può aiutare a sollevarci, a uscire da stati di sofferenza e a trovare un inatteso riscatto esistenziale. È quello che accade alla piccola Rebecca che a causa della sua macchia viene isolata della madre Maria (Valentina Bellé) dal mondo. Ad occuparsi di lei è in parte la zia Erminia (Sonia Bergamasco) concertista di fama e sorella gemella del padre, Osvaldo (Paolo Pierobon). È proprio Ermina che la porta in giro di notte, unico momento in cui Rebecca può uscire di casa, ma è quando scopre la musica che la bambina comincerà a vivere. A interpretare Rebecca adolescente è Beatrice Barison, pianista professionista».
Anche Sonia Bergamasco ha una formazione di pianista.
«Volevo che la musica fosse suonata davvero e non per finta, per questo ho cercato l’attrice destinata al ruolo di Rebecca nei conservatori e non nelle accademie di recitazioni. La musica salva e per questo non potevamo fingere e c’era bisogno di chi veramente sa suonare e vive la musica realmente».
Che cosa l’ha affascinata del romanzo di Veladiano?
«Senza alcun dubbio i meccanismi che scattano quando ci si ritrova a gestire qualcosa fuori norma. La figlia tanto attesa alla nascita mostra una vistosa deformazione, la reazione della madre è la follia che oggi considereremmo l’esito di una pesante depressione postpartum, ma anche il timore di mostrare ciò che non è in regola al di fuori. Di questo ho voluto parlare, attraverso il racconto del romanzo».
Raccogliendo un invito di Marco Bellocchio?
«Era un suo progetto, poi non potendo dirigere mi ha passato la sceneggiatura che ho letto, e facendo il percorso inverso, mi sono poi approcciato al romanzo. Alla fine ho lavorato per riadattare quanto Bellocchio e Gloria Malatesta avevano scritto: dovevo indossare io quella sceneggiatura».
Che modifiche ha fatto?
«Faccio un esempio, ho deciso di ambientare la vicenda dagli anni Ottanta al Duemila, e non fra gli anni Sessanta e Settanta, periodo che avevo già affrontato in molti miei film. Gli anni Ottanta e Novanta mi parevano adatti a raccontare, a mostrare la crisi di una famiglia borghese e in generale di una famiglia davanti all’irrompere della follia e della diversità. Il bisogno di tenere nascosto tutto, la paura del giudizio degli altri. Tutto ciò in anni che vivono di una grande fiducia, che sembrano promettere un grande benessere e una grande libertà».
Anche per questo l’ambientazione e la città di Vicenza dove è girato il film sono da considerarsi importanti quanto gli attori?
«Il grande palazzo in cui vivono Osvaldo, Maria e Rebecca oltre a Erminia è uno spazio sontuoso ma anche silenzioso, separato dal mondo, è un luogo bellissimo ma anche carico di dolore. Non da ultimo ho voluto tecnicamente usare una sorta di panoramica e obiettivi che permettessero di posizionare sempre nello spazio, anche con i primi piani, i personaggi. L’atmosfera è come sospesa nel tempo e nello spazio. Non diamo giudizi, si mostra quello che accade, non mi piacciono i film con la morale. Non c’è nessun giudizio a priori da esprimere».
A tal punto che anche il sospetto di una relazione fra Erminia e Osvaldo, fratelli gemelli, non si sa fino a che punto sia reale.
«Alla fine il personaggio di Osvaldo dice che ha sempre amato Maria e aggiunge: anche se gli altri non ci credono. Rimane sempre il dubbio di qualcosa che è sommerso, inespresso, nascosto».
Può più la follia o la forza salvifica della musica?
«Ne La vita accanto questi due aspetti convivono. Senza dubbio la musica per Rebecca è motivo di salvezza, per Maria è invece il pensiero ossessivo rispetto al forte legame del marito con la sorella gemella. È in questa ambivalenza e in questa coesistenza che si sviluppa la vicenda del film come del romanzo».
Come posizione questo film all’interno della sua opera?
«Ogni volta che giro un film è come se fosse il primo. Tutto nasce dalla curiosità o dalla voglia di esplorare un mondo che non ho mai affrontato. Mi risulta difficile dare una posizione specifica a ogni mio film. La mia tensione è quella di guardare avanti e non sistematizzare ciò che è stato o ciò che ho fatto».
Nel cast ci sono attori che lei conosce bene come Sonia Bergamasco o Michela Cescon, ma anche attori al debutto come Beatrice Barison, oppure interpreti con cui lavora per la prima volta come Paolo Pierobon e Valentina Bellé. Come mettere d’accordo questi diversi piani di relazioni e professioni?
«Mi verrebbe da dire con la curiosità e la voglia di conoscerci, anche con attrici come Bergamasco e Cescon che hanno lavorato parecchie volte con me. Solitamente chiedo agli attori di farmi vedere come leggono il personaggio, da quello che faccio traggo spunto, cambio, rubo intuizioni e costruisco insieme a loro il film. Ciò vale sia per coloro che per la prima volta lavorano con me, ma anche per chi ha condiviso con me la mia storia di regista. Ogni volta vado in cerca di ciò che non conosco nei miei attori e in quelli che incontro o penso possano essere adatti al ruolo dei personaggi del film. Così è stato per Barison, così per Bellé e per Pierobon, un attore con cui ho cercato di lavorare più volte. Questa volta ce l’abbiamo fatta e lui dà a Osvaldo una ambiguità, una stratificazione di segni e significati che mi stupiscono».
Dopo l’uscita del film che cosa l’attende?
«Ora faremo un tour per presentare il film. Bello sarebbe venire a Cremona. Nei prossimi giorni vedo Lionello Cerri che ha un rapporto particolare con Cremona e glielo propongo e poi da cremasco la zona la conosco. Dopo di che quest’anno lavorerò alla messinscena de Il fu Mattia Pascal con Geppy Gleijeses».
Il teatro non lo lascia?
«No, è un’esperienza importante. A teatro si incontrano nuovi attori, hai la possibilità di lavorare su tempi lunghi e sui dettagli, di andare in profondità. E poi, ripeto, mi permette di conoscere tante persone e la formazione teatrale per un attore spesso è quella che fa la differenza».
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