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PENSIERI LIBERI

‘Shopping is life’, ma ho la nausea del consumismo

Perché anziché spendere, sarebbe meglio spendersi...

Adelaide Ricci (Medievista, docente alla facoltà di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia)

09 Aprile 2024 - 05:05

‘Shopping is life’, ma ho la nausea del consumismo

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Non è solo retorica la folata d’aria – dentro e fuori metafora – che avvia la primavera, così che le corde vibrano a nuovo. Insieme al primo fiorire del glicine si percepisce una rinascita che chiama, sottile, più sottile, non sopita. Cosa rispondere? Il nostro posto l’ha preso uno slogan che viaggia stampato a enorme spazio, fisico e mentale, sugli autobus del centro: ‘Shopping is life’. Stavo guidando e ho dovuto accostare in sosta irregolare lungo gli stalli del pensiero, nell’evidenza di un fenomeno fisico che decido così di raccontare, per quando sia convinta che poco importi la mia personale opinione: la nausea del consumismo.

Sarà che se pronunciato con flemma cremonese lo ‘shop’ diventa ‘soap’, così che all’improvviso si manifesta tanto la sua natura effimera quanto altro, ben più insidioso: quel consumismo profumato che fa scivolare, come una scia di sapone sul pavimento del bagno; quel dover far acquisti che lava via lo stupore degli incontri; infine, la confezione che resta da smaltire. Ma come è accaduto che ci siamo rifugiati nella prigione del mercato? Ricominciamo dalle parole, per favore. Dall’abisso del verbo ‘consumare’ nella sua forma antica del latino.

Primo significato: divorare. Più consumo, più uso, più esaurisco, più le stesse azioni prendono una piega che torna su noi stessi; e ci si sbocconcella piano piano lungo la strada, come il pane di Hansel e Gretel nella prima parte della fiaba, quella in cui le briciole sono preda di scoiattoli e uccellini (che fanno ‘tweet’) e, per dirla alla toscana, noi non si torna a casa, no. Un capogiro.

Secondo significato: trascorrere, come l’acqua del fiume che torna al mare. Ecco allora il tempo, che passa e rallenta e quasi pare restare sospeso negli incontri, negli sguardi, nei momenti benedetti; oppure che prende la rincorsa, a stento trattenuto dalle redini di una razionalità che non è affatto tutto il buono degli esseri umani. Ma il tempo non si compra, né è denaro; l’abbiamo ipotecato, invece, scommettendo sul breve orizzonte umano, tagliando i ponti con l’aldilà del mondo. Per chi abbiamo amato paghiamo la luce accesa al cimitero mentre brancoliamo nella penombra di un benessere che ci consegna quasi centenari in una struttura protetta, soli, semispenti, a un prezzo troppo alto – e non si tratta solo di rette mensili. Al capogiro si somma una morsa allo stomaco.

Altro significato (lo sussurro): far scomparire. Subito la nausea, forte. Una volta compiuta, a piccoli passi, la trasformazione da essere umano a consumatore, scopro che sto svanendo. Come in un sogno brutto, con la sceneggiatura alterata da uno stato febbrile, ecco che una mano perde consistenza, si fa trasparente, e così parte del viso; ciò che afferro sfugge, ogni acquisto mi fa perdere. Più consumo, più mi consumo. Sono scesa dall’auto, prendo aria, mi incammino lungo le vie del centro, le strade dei negozi. Riprendo familiarità con una parola che viene da lontano: ‘commercium’.

Evidente il suo esito italiano, ma il significato ha viaggiato per secoli, sempre più in esilio dalla sua prima forma. Chi potrebbe ricordare che proprio questo vocabolo tratteggiava una relazione a tutto tondo, uno scambio tra persone? Eppure era questo: una pratica di rapporti incarnati, ossia che passano per mani occhi passi profumi strette di mano ascolto. Un legame tanto autentico da poter perfino diventare sacro: il ‘sacrum commercium’ di san Francesco con madonna Povertà. Dal consumismo al vivere poveri: che vertigine. Se socchiudo gli occhi, mi pare compaiano allora piccoli sassi bianchi, quelli che potrebbero guidare verso una nuova casa chi prenda seriamente in considerazione (vale a dire come lo farebbero i bambini) di scrivere altri possibili finali alla fiaba del consumismo.

Anziché spendere, spendersi. Non più un prendere vorace, ma al suo posto apprendere. Smetterla di accusare il pifferaio magico invocandone la messa al bando mentre cerchiamo al miglior prezzo un viaggio di massa per topolini obbedienti. Sentire il peso della nostra borsa al collo prima di giudicare i trenta denari di Giuda.
Smentire, infine, il ‘potere d’acquisto’ – espressione già dal suono più che sinistro – per riconoscersi felicemente poveri, dunque pronti alla gratitudine.
Lasciare l’auto in sosta, il pomeriggio libero, la nausea spazzata via da una folata fresca; la vita ha più speranza di qualsiasi sogno.

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