+39 0372 404511

Cerca

IL PUNTO

Stupratore in carcere, mandategli un vaglia

L'ondata di commenti in ‘soccorso’ di un 41enne di Motta Baluffi condannato a 7 anni per aver abusato di una donna è dimostrazione lampante che spesso a venire giudicato non è tanto il comportamento dell’aggressore, ma la condotta della vittima

Paolo Gualandris

Email:

pgualandris@laprovinciacr.it

17 Marzo 2024 - 05:30

Stupratore in carcere, mandategli un vaglia

Per fortuna non sono arrivati a scrivere che «se l’è andata a cercare», tipico refrain sessista di chi non vuole arrendersi all’evidenza che nessun tipo di abbigliamento, nessuna situazione di alterazione psico-fisica, nessun atteggiamento e nessun altro fantasioso motivo, qualunque esso sia, giustifica una violenza sessuale. Fa però molta impressione l’ondata di commenti – anche di donne – in ‘soccorso’ di un 41enne di Motta Baluffi, con precedenti di polizia a carico condannato in via definitiva a 7 anni di carcere per avere stuprato (parola forte, ma in questo caso necessaria per rendere chiaramente l’idea del tipo di abuso) una conoscente al termine di una cena tra amici. Sette anni sono una condanna importante, arrivata in primo grado e poi confermata in Appello.

C’è da presumere che non sia stata inflitta dai giudici a cuor leggero. Non si brinda mai quando una persona viene privata della propria libertà e finisce in una cella, ma stante anche il doppio grado di giudizio, c’è da ritenere che si tratti di una pena congrua. Eppure a favore del 41enne si è scatenata una campagna social nella quale il carnefice viene addirittura elevato al rango di vittima, viene beatificato. «Un’anima buona», lo definiscono, «una delle persone più gentili del mondo». C’è chi arriva a proporre «Aiutiamolo, nel senso che gli si può spedire qualche pacchetto con generi di prima necessità (vestiti, ciabatte) o meglio ancora vaglia postale». Per finire con un «tu non fai quelle cose, hai trovato la persona sbagliata». Che significa nessuna pietà per la vittima. Delirante.

L’invito «non mollare, perché chi ti conosce sa» va proprio in questo senso. Un breve riepilogo dei fatti per chi si è perso la notizia. Abbiamo scritto: ‘Il 41enne era stato denunciato a giugno 2020 da una donna che aveva subito una violenza sessuale. La vittima aveva riferito ai carabinieri che, una sera, aveva ospitato in casa sua due amici per cenare insieme. Poi uno dei due era andato via, mentre l’altro era rimasto e aveva tentato con lei un approccio fisico, provando a toccarla. Al diniego della donna, lui l’ha bloccata. Lei ha provato a scappare, ma lui l’ha trattenuta e ha abusato di lei. La donna ha denunciato il fatto ai carabinieri di Scandolara e sono state avviate le indagini fino alla prima condanna a sette anni. La giustizia ha seguito poi il suo iter fino all’emissione dell’ordine di carcerazione per la pena da scontare. Ora si trova nel carcere di via Ca’ del Ferro’.

Scattate le manette, è partita l’ondata social all’insegna del cosiddetto victim blaming, o colpevolizzazione della vittima. Si tratta di un atteggiamento per il quale l’uomo considera la donna come un oggetto di proprietà, sulla quale esercitare un dominio completo anche tramite la violenza. Lo psicologo William Ryan, nel libro ‘Incolpare la vittima’, chiarisce il concetto: «Da un punto di vista esterno, incolpare le vittime per la situazione in cui si trovano è un modo semplice per affrontare situazioni difficili, permette, ad esempio, di ignorare il problema in quanto è responsabilità della vittima trovare il modo di risolverlo o imparare a conviverci».

È la cosiddetta vittimizzazione secondaria, vale a dire quando una persona che ha subito una violenza primaria rivive il trauma o subisce ulteriori brutali intimidazioni da parte di soggetti diversi dall’autore della violenza primaria. Con il risultato che la vittima viene costretta a rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta, è scoraggiata a parlare di quanto ha dovuto subire o viene spinta a ritirare l’eventuale denuncia. Non è il nostro caso, ovviamente, perché il pietismo nei confronti del 41enne è arrivato a condanna conclamata. È vittimizzazione secondaria dire che la vittima di una violenza «se l’è andata a cercare» per via del suo abbigliamento o delle sue abitudini sessuali.

Così facendo si sposta l’attenzione dall’aggressore alla vittima: la persona che ha subito la violenza viene ritenuta responsabile a causa del proprio comportamento. Per tornare al caso di Motta Baluffi, il restare a casa propria sola con un uomo. I nostri giudici le hanno creduto e lo hanno dimostrato con le loro sentenze, ma non sempre finisce così. Nel 2022, la Corte di Appello di Torino aveva assolto un uomo perché ha ritenuto che la porta socchiusa lasciata dalla ragazza fosse «un invito a osare», oppure ancora, sempre a Torino, la denuncia di stupro di una donna non è stata ritenuta attendibile perché la vittima «aveva detto basta, ma non aveva urlato».

Casi come questi sono la dimostrazione lampante che spesso a venire giudicato non è tanto il comportamento dell’aggressore, ma la condotta della vittima. Le cronache sono piene di processi in cui la donna violata viene sottoposta a interrogatori devastanti da parte dei difensori dell’imputato. Una violenza nella violenza. Sarebbe interessante chiedere ai leoni da testiera se prima di scrivere si siano interrogati sullo stato d’animo e sulla situazione psicologica della donna oggetto delle violente attenzioni del loro campione di bontà, se abbiano provato un po’ di umana pietà verso di lei, se e quanto il vergognoso contenuto delle loro parole avrebbe potuto devastare la sua anima. Tutte domande che purtroppo resteranno senza risposta. Almeno da parte loro.



Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su La Provincia

Caratteri rimanenti: 400