18 Febbraio 2024 - 05:30
I minori italiani tra gli 8 e i 16 anni trascorrono online da una a tre ore al giorno (uno su cinque sale oltre le quattro) utilizzando social network, messaggistica e piattaforme streaming. Praticamente tutti navigano utilizzando lo smartphone. A delineare questa fotografia, che è possibile definire quantomeno inquietante, è lo studio ‘Alfabetizzazione mediatica e digitale a tutela dei minori: comportamenti, opportunità e paure dei navigatori under 16’, promosso dal ministero delle Imprese e del Made in Italy con l’Alta Scuola in Media, comunicazione e spettacolo dell’Università Cattolica di Milano e presentato in settimana. Quattro intervistati su 10 raccontano esperienze negative. Come quella di restare vittime di cyberbullismo, primo e più diffuso rischio che si corre in rete, ma ce ne sono anche di peggiori, se possibile.
Si va dalla diffusione illecita di immagini alla pedopornografia, al sexting e alla sextortion (ricatto online che utilizza materiale sessualmente esplicito, come foto o video intimi, inizialmente inviate dalla vittima, che è sempre più spesso minorenne, anche under 10), per arrivare fino al grooming, cioè l’adescamento di un minore in Internet tramite tecniche di manipolazione psicologica volte a superarne le resistenze e a ottenerne la fiducia per poi abusarne sessualmente. Per non parlare poi del furto di identità e delle truffe. Ma quando si viene a conoscenza del reato è quasi sempre ormai troppo tardi, è già stato commesso e ha generato danni. «I vostri prodotti uccidono», «avete le mani sporche di sangue» sono le pesanti accuse rivolte da senatori americani agli amministratori delegati di Meta (Facebook e Instagram), X, TikTok, Snap e Discord in una tesissima e recente audizione alla commissione Giustizia sui rischi delle piattaforme social per i bambini e gli adolescenti.
«Stanno distruggendo vite umane e minacciano la democrazia. Queste aziende vanno domate e il peggio deve ancora venire», ha per esempio accusato il senatore repubblicano della South Carolina Lindsey Graham riferendosi a Big Tech. Parole accolte dagli applausi di decine di genitori con le foto dei loro bambini morti o traumatizzati dai social. Perché accade anche questo: di social si può morire se si è un soggetto fragile come possono esserlo gli adolescenti. Chiaramente in imbarazzo, Mark Zuckerberg, ceo di Meta. si è rivolto proprio alle famiglie e ha chiesto scusa.
«Mi dispiace per tutto quello che avete dovuto passare. Nessuno dovrebbe attraversare quello che voi avete attraversato. È per questo che abbiamo investito così tanto per assicurare che altri non debbano vivere quello che avete vissuto voi», ha detto illustrando gli sforzi della società: circa 40mila persone preposte alla sicurezza online, oltre 20 miliardi di dollari spesi dal 2016 e altri due in programma per quest’anno. Ma i senatori hanno citato i documenti interni al gruppo secondo cui Zuckerberg ha rifiutato di rafforzare i team incaricati di individuare i pericoli per gli adolescenti online. E Ted Cruz lo ha messo all’angolo a proposito di un monito su Instagram che avvisava gli utenti del rischio di vedere su una pagina un’immagine con abusi sessuali su minori ma poi consentiva comunque di vederla. In analoga difficoltà, nell’occasione, anche l’ad di Tik Tok Shou Zi Chew e Linda Yaccarino di X.
Quest’ultima ha ricordato che non è una piattaforma scelta dai giovani e che verrà comunque creato un nuovo dipartimento per la moderazione dei contenuti. Moderazione finora allentata dal patron Elon Musk, sul cui social in settimana sono apparse anche immagini hard fake di Taylor Swift. Il problema di fondo è che le misure annunciate regolarmente dalle piattaforme online sono ritenute insufficienti da osservatori e autorità e oltretutto nella sostanza restano al livello di dichiarazioni non seguite dai fatti (il fatturato detta legge). Negli Stati Uniti l’allerta è massima. Eric Adams, sindaco di New York ha deciso di portare in tribunale TikTok, Facebook, Instagram, Snaptchat e YouTube (cioè le piattaforme dominanti) accusandole di «aver alimentato una crisi mentale» tra i suoi giovani «a livelli che non si erano mai visti». Li ha definiti «tossina ambientale» e «pericolo per la salute pubblica».
È in corso una campagna in grande stile. La Florida si appresta a vietare per legge i social ai minori di 16 anni; in ottobre più di quaranta stati americani hanno presentato una denuncia contro Meta, ritenendo che le sue piattaforme danneggino la «salute mentale e fisica dei giovani», citando i rischi di dipendenza, molestie informatiche o disturbi alimentari; il New Mexico ha fatto causa sempre a Meta, accusando le sue piattaforme di promuovere la criminalità infantile, dalla pedopornografia agli algoritmi di raccomandazione e all’istigazione criminale. Toni da autentica crociata, probabilmente eccessiva, ma certamente non priva di motivazioni reali.
«Gli ambienti digitali sono una risorsa fondamentale per le generazioni più giovani», ammette Mariagrazia Fanchi, direttrice dell’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo. Che però ammonisce: «Sono mondi complessi, rispetto ai quali i nativo-digitali si trovano a dover maturare competenze d’uso, che si apprendono attraverso il confronto con i genitori, dal gruppo di pari, a scuola, e che richiedono anche lo sviluppo di politiche capaci di promuovere contenuti arricchenti e che mettano al riparo dai rischi». Il punto nodale è proprio questo. Prevenzione e controllo sono le parole d’ordine.
Lo Stato, con le sue leggi, ha un ruolo strategico, ma l’impegno in questo senso non può bastare. L’avamposto resta la famiglia. Che non sempre è in prima linea. Alzi la mano chi non ha mai visto papà e mamma che per riuscire a stare tranquilli sbattono in mano un tablet, un telefonino o un altro device al/ai figlio/i, a casa come al ristorante. Spesso gli under 50 sono più dipendenti dai social dei loro eredi, anche questo è un problema. Che esempio forniscono quei genitori che non perdono occasione di postare ogni momento della giornata, preoccupandosi dei numero dei like generati? È normale che i bambini e gli adolescenti vogliano appartenere a comunità virtuali con i loro amici. Altrettanto naturale è che i genitori lo permettano.
Tuttavia, assicura ogni esperto, è indispensabile esercitare sui ragazzi forme di controllo. Missione non facile, possono nascere conflitti, anche accesi, in famiglia. Per lo più gli adolescenti non tollerano che i genitori tengano monitorati i loro messaggi o le loro ricerche in rete. Tuttavia, essere ‘amici’ social dei figli per poterne controllare a distanza le interazioni non solo è lecito, ma addirittura consigliato. Meglio se si riesce a farlo per scelta condivisa. Così come è opportuno stabilire orari e limiti di uso dei social e avere un dialogo costante sui rischi che si corrono in rete alimentando un clima di fiducia reciproca. Il Tribunale di Parma, con la sentenza 698 del 5 agosto 2020, per la prima volta ha sdoganato espressamente i dispositivi di parental control autorizzando il controllo dei dati in entrata e in uscita dal cellulare dei figli soprattutto quando vi sia il fondato timore che possano mettersi nei guai. Come insegnano molte esperienze in Italia e fuori, prevenire è sempre meglio che curare. Tutte cose dette e stradette, è vero. Ma le cronache quotidiane ci insegnano che repetita iuvant.
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