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IL PUNTO

Ricomincio da me, perché tu non mi ami

A fare i bagagli per andarsene dall’Italia in cerca di lavoro sono in 600mila ogni anno. I motivi? Un mercato troppo rigido, non a misura di giovani e scarsamente premiante in termini economici e di prospettive di carriera

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

12 Novembre 2023 - 05:30

Ricomincio da me, perché tu non mi ami

Ora è più felice che in passato Stefano Manfredi, il cremonese che a 54 anni ha deciso di cambiare vita lasciando un tranquillo, sicuro e ben remunerato impiego di responsabile della sicurezza alimentare di una grande catena di ristorazione per dedicarsi anima e corpo ad andare dove lo porta il cuore. Appassionato di Giappone, Paese che ha visitato più volte, ha aperto un negozio dedicato alla bellezza della cultura nipponica. Probabilmente ora guadagna meno in termini economici, ma certamente lucra quanto a felicità e qualità della vita. Addio lunghe trasferte su e giù per l’Italia, quasi sempre lontano dalla propria famiglia; meglio una vita circondato dall’affetto dei propri cari e con vista su amati oggetti d’artigianato, ceramiche, abbigliamento, incensi, tè e sakè. Come lui, sono stati molti altri gli italiani che hanno cambiato vita.

C’è, per esempio, chi ha lasciato un posto da super manager di una multinazionale per trasformarsi in skipper a disposizione di turisti nei mari dall’altra parte del mondo e chi si è tolto il colletto bianco per andare a gestire un rifugio in alta montagna. La chiamano ‘great resignation’, letteralmente grande rassegnazione. Una definizione che però rappresenta il fenomeno contrario: la sfida della vita puntando tutto su se stessi. Un esodo silenzioso dalle imprese, alle quali si imputano le principali responsabilità. Che vanno dall’incapacità del datore di lavoro di soddisfare le ambizioni professionali alla scarsa flessibilità, alla mancata meritocrazia; non secondaria la mancanza di corrispondenza tra i propri valori e quelli aziendali. Insomma, ricomincio da me perché tu, lavoro, non mi ami.

A fare i bagagli per andarsene dall’Italia in cerca di lavoro sono in 600mila ogni anno, sei volte tanto la quota di migranti che arrivano su barconi o attraverso valichi. A salutarci sono in particolare i giovani della generazione Z, d’altronde loro sono la categoria di italiani che non ha alcun problema a dichiarare di anteporre la propria felicità alla sfera lavorativa. Ma la voglia di ricominciare da sé non ha età ed è ampiamente presente anche dalle nostre parti. Lo ha certificato uno studio della Libera Associazione Artigiani Cremaschi che dà numeri significativi: un lavoratore occupato su due ha cambiato posto negli ultimi due anni, il 15 per cento sta cercando attivamente un altro impiego, uno su cinque desidera un orizzonte professionale diverso anche se ancora non si è mosso in tal senso.

Secondo il rapporto Randastad monitor, «il 36 per cento dei dipendenti ha già lasciato il proprio lavoro, principalmente a causa dell’incompatibilità con la propria vita privata. Se si considera la fascia di età compresa tra i 18 e i 34 anni, la percentuale sale addirittura al 51. Trentotto italiani su cento hanno dichiarato che sarebbero disposti a lasciare il lavoro se questo interferisse con il godimento della vita. La percentuale supera il 50 tra i lavoratori tra i 18 e i 25 anni. Un altro dato rivelatore del cambiamento di prospettiva e priorità è il fatto che il 23 per cento dei dipendenti preferirebbe essere disoccupato piuttosto che infelice sul lavoro, percentuale che sale al 34 nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni».

Una prima, ma troppo semplicistica e facile, spiegazione può essere questa: tutta colpa del Covid, che tra isolamento, smart working e altre limitazioni alla libertà ha fatto cambiare le prospettive di vita a tutti noi. È certamente possibile che la pandemia abbia avuto tra i suoi effetti anche questo, ma il fenomeno, almeno per quanto ci riguarda, è databile assai prima del 2020 e ha radici molto profonde in tutti i settori del sistema Italia: nel Belpaese, certifica Eurostat, il 90 per cento delle persone lascia il proprio impiego a causa di un mercato del lavoro troppo rigido, non a misura di giovani, scarsamente premiale per i migliori in termini sia economici che di prospettive di carriera, con stipendi tra i peggiori d’Europa anche per chi è molto qualificato. Molti di coloro che si dimettono lo fanno per andare all’estero. Cervelli e muscoli in fuga. Il Paese è in crisi demografica, all’ultimo posto in Europa per nascite, e perde ogni anno 25mila laureati che espatriano in cerca di migliori opportunità.

Il rapporto del think tank Welfare, Italia, promosso da Unipol e Ambrosetti, stima che l’emigrazione dei ragazzi più qualificati costi ogni anno 3,5 miliardi di euro. La scelta di andarsene appare spesso come una necessità, dal momento che un italiano su due sotto i 30 anni guadagna meno di 10mila euro all’anno. «Per forza se ne vanno, così è impossibile avere una vita decente», ha dolorosamente ammesso il ceo di Ambrosetti, Valerio De Molli. I dati sono stati resi noti mentre è allo studio del governo una stretta alle agevolazioni per chi decide di rientrare. La fondazione Migrantes nel suo rapporto ‘Italiani nel Mondo’ ci dice invece che sono circa 6 milioni i connazionali che vivono all’estero: dal 2006 a oggi sono pressoché raddoppiati e il 67 per cento è under 50.

A prendere la via della fuga sono soprattutto i neet, giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione, e le donne. A conferma di quanto detto fin qui, viene spiegato che a muoverli è il «desiderio di rivalsa» verso un Paese che non è in grado offrire occasioni. Sono quasi quattromila, su una popolazione complessiva appena sopra le 70mila unità, i cremonesi (nel senso di residenti nel comune capoluogo) iscritti all’Aire, l’Anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero. I più tra coloro che espatriano, però, non lo comunicano. Un piccolo esercito, molti possono essere definiti cervelli in fuga. Abbandonare la città è stato difficile, tornarci un sogno.

«Quando rientrerete vi scontrerete con diverse difficoltà. Prima tra tutte la teoria della coda. Cercando un lavoro, sarete messi in fondo», ammonì Mario Draghi, quando ancora vestiva i panni del Governatore della Banca d’Italia, incarico che ha ricoperto dal 2005 al 2011. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, commentando il rapporto di Migrantes, ha definito la fuga dei cervelli «una patologia» alla quale «porre rimedio», invitando la classe politica a «individuare percorsi per garantire il ritorno in Italia». Affrontare la great resignation e il nodo dei cervelli in fuga richiede un approccio che consideri le esigenze dei dipendenti e le sfide attuali del mercato del lavoro. Investire nell’attrazione e nel mantenimento dei talenti può portare a un ambiente di lavoro più soddisfacente, una maggiore produttività e una migliore reputazione aziendale. Anche così l’Italia può cercare di porre rimedio al rigido inverno demografico che ne sta riducendo la popolazione, con effetti potenzialmente devastanti.

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