18 Dicembre 2022 - 05:00
Chi chiedeva al Partito Democratico una scelta di campo in vista delle Regionali 2023 ha ottenuto nelle ultime ore la risposta che aspettava: alle elezioni del 12 e 13 febbraio il candidato alla presidenza della Lombardia Pierfrancesco Majorino rappresenterà anche il Movimento 5 Stelle. La trattativa che durava da settimane su alcune scelte programmatiche si è conclusa venerdì sera, con il sì non proprio unanime della base grillina: 63 per cento di favorevoli, 37 per cento di contrari (in testa l’ex senatore cremonese Danilo Toninelli, dichiaratamente contrario all’alleanza con un partito di cui, parole sue, «non ci si può fidare» perché «di stimabile non ha nulla»).
Se l’accordo soddisfi anche la base dem è più difficile da sapere, perché in questi casi il Pd - a differenza del M5S - non prevede la consultazione degli iscritti. Qualche mal di pancia, però, è facile da immaginare e a livello provinciale emerge in maniera chiara dai primi commenti ufficiali (e ancor di più da quelli ufficiosi) dei più autorevoli esponenti del partito. Sia come sia, il dado è tratto: a due mesi dalle elezioni la scelta non prevede margini di ripensamento. E sposta decisamente a sinistra la posizione di un Pd che, non a caso, anche a livello nazionale si interroga su quale linea tenere in futuro, contrapponendo nella corsa alla segreteria nazionale la «rivoluzionaria» Elly Schlein al più moderato Stefano Bonaccini. Tornare a essere un partito di sinistra e riallacciare i rapporti con il M5S sarà una scelta vincente?
La prima risposta al quesito si avrà fra un paio di mesi, in Lombardia, perché in politica tutto è mutevole e spesso l’umore degli elettori cambia alla velocità della luce: è chiaro, però, che aver siglato un accordo elettorale con il movimento guidato da Giuseppe Conte dopo aver detto no a una possibile alleanza con Azione e Italia Viva (quindi con Carlo Calenda e Matteo Renzi) rappresenta per il Pd una scelta precisa, un messaggio forte e chiaro, se non addirittura un punto di non ritorno. Certo, imbarcare Letizia Moratti - fino a poche settimane fa avversaria dichiarata, da vicepresidente della Giunta Fontana - per larga parte del Pd sarebbe stato ancor più lacerante, per alcuni esponenti del partito addirittura «inaccettabile, indigeribile, contronatura», ma neppure l’intesa con il M5S si annuncia priva di spine e di criticità.
«Come ha dimostrato la vittoria di Giorgia Meloni alle Politiche, la legge elettorale premia chi sa unire forze, superando divisioni, egoismi e differenze», spiegano i fautori del cartello Pd-M5S, prendendo a modello il pragmatismo vincente del centrodestra. La tesi è difficilmente confutabile. Seguendo lo stesso ragionamento, però, risulta meno chiaro perché per il Pd «turarsi il naso per provare a vincere» funzioni solo in una direzione: è ammesso verso sinistra, escluso verso il centro. Il sospetto è che, al di là delle ragioni programmatiche e identitarie, nel secondo caso antipatie e rancori personali prevalgano sulla possibile convenienza elettorale.
Ma tant’è: saranno gli elettori a decidere se la mossa maturata nelle ultime ore sia vincente o perdente. In ogni caso per il Pd sarà difficile far peggio del 2018, quando Attilio Fontana diventò presidente della Regione sfiorando la maggioranza assoluta dei voti (49,75%) e il candidato moderato del centrosinistra (il sindaco di Bergamo Giorgio Gori che molti consideravano favorito alla vigilia) incassò una sonora sconfitta, raccogliendo solo il 29,09% dei consensi, peggior risultato di sempre in Lombardia per la coalizione di centrosinistra. È altrettanto vero, però, che i voti si possono contare anche in un altro modo: se in termini percentuali nel 2018 la vittoria di Fontana fu schiacciante, in termini assoluti la somma dei voti raccolti dal centrosinistra (1.633.373) e dal M5S (974.983) svelò che la distanza dal centrodestra non era incolmabile.
Calcolatrice alla mano, sommando le preferenze di Gori e di Dario Violi (il candidato grillino) il bottino fu di 2.608.356 voti, non troppo lontano dai 2.793.369 voti ottenuti da Fontana. Da qui, probabilmente, la scelta delle due principali forze d’opposizione di unire le forze per provare a giocarsela. Il problema, per Pd e M5S, è che stavolta ci sarà una concorrente in più: a chi porterà via voti Letizia Moratti? Agli ex alleati spaventati dall’onda travolgente di FdI su una Lega in flessione e una Forza Italia sempre più debole o ai moderati di centrosinistra preoccupati da alcune posizioni programmatiche «estreme» di Majorino e M5S? Se lo spinoso tema della sanità può favorire la sinistra, che da sempre accusa Fontana e Moratti di privilegiare le strutture private a discapito degli ospedali pubblici, su altre partite la maggior parte dei lombardi potrebbe coltivare non poche perplessità.
Il territorio cremonese ampiamente favorevole alla realizzazione dell’autostrada Cremona-Mantova, per esempio, come prenderà la dichiarazione programmatica di Pd e M5S che promette «nuove risposte infrastrutturali» alle esigenze dei territori finora più penalizzati, attraverso progetti in grado di garantire «la riduzione dell’impatto ambientale e del consumo di suolo, in coerenza con gli obiettivi di transizione ecologica, privilegiando gli investimenti nella riqualificazione dell’esistente», oltre che «la reale sostenibilità finanziaria di tali opere per evitare ulteriori fallimenti»? E, data la sua storica vocazione agricola e zootecnica, come prenderà il territorio cremonese (e di gran parte della Lombardia) l’intenzione dichiarata dall’asse Pd-M5S di «adottare ogni strategia necessaria per ridurre il consumo di acqua da parte del settore agricolo, anche ripensando i modelli colturali oggi praticati, qualora gli effetti del cambiamento climatico e i periodi siccitosi dovessero intensificarsi»?
La risposta si scoprirà il 13 febbraio. Nel frattempo, va dato atto a Pd e M5S di non essersi nascosti dietro un dito, ma di aver manifestato con grande chiarezza quali scelte faranno in caso di vittoria. Magari non rinconquisteranno la Regione dopo 28 anni di incontrastato governo del centrodestra, come auspica Majorino, ma l’Oscar della trasparenza, quantomeno, se lo sono aggiudicati fin d’ora.
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