12 Maggio 2024 - 05:25
GRONTARDO - Della villa natale, chiusa per lavori, si può intravedere solo la facciata, alla fine di un sentiero nel parco. La tomba invece è al centro del cimitero di Fratta Polesine, in una cappella che è allo stesso tempo sobria e monumentale: le ragazze e i ragazzi della terza media di Levata hanno visitato il paese in cui Giacomo Matteotti è nato nel 1885 e dove è sepolto dall’estate del 1924, dopo essere stato brutalmente ucciso dalla polizia fascista, il 10 giugno di cento anni fa.
L’occasione è stata il Viaggio della memoria organizzato dall’associazione Idea resistente. Gli studenti sono stati accompagnati dalle insegnanti di storia Piera Federici e Nilda Cambiati e dalle docenti Alma Vacchelli e Margherita Tedoldi, ma era nutrita anche la presenza istituzionale. C’erano infatti anche i sindaci di Persico Dosimo (Giuseppe Bignardi) e Scandolara Ripa d’Oglio (Angelo Zanini) e il vicesindaco di Grontardo (Santo Sparacino), accolti dai primi cittadini di Fratta Polesine (Giuseppe Tasso) e Villamarzana (Daniele Menon).
Erano inoltre presenti anche Michele Gerevini, presiedente di Idea resistente, Franco Carrara, Adriano Galli, diversi volontari e Fabrizio Superti, che nei giorni precedenti il viaggio ha tenuto una lezione su Matteotti.
Della persona simbolo dell’antifascismo, vittima illustre della ferocia mussoliniana, a Fratta è stato ricordato soprattutto l’uomo. Tasso ha sottolineato come Matteotti, assassinato a 39 anni appena compiuti, fosse non solo un politico, il marito teneramente innamorato di Velia Titta e il papà di tre bambini piccolissimi: Giancarlo, Matteo e Isabella. Non era un eroe, Giacomo, e non cercava la morte. Non voleva diventare un martire ma credeva nella verità, nella giustizia e nell’uguaglianza sociale: denunciando in Parlamento i brogli elettorali, ha firmato la sua condanna a morte, eppure non avrebbe potuto tacere.
Dopo una breve e coinvolgente cerimonia nel cimitero di Fratta Polesine, il viaggio è proseguito a Villamarzana, dove il 15 ottobre 1944 i fascisti hanno trucidato quarantatré persone - compresi alcuni ragazzini - per rappresaglia, dopo l’uccisione di quattro spie fasciste che si erano infiltrate in una formazione partigiana. È stata la strage più grave in Polesine, ma la geografia degli eccidi nazifascisti che hanno insanguinato l’Italia negli ultimi mesi di guerra è talmente fitta da risultare poco nota.
La bottega del barbiere dove le vittime sono state rinchiuse prima della fucilazione è oggi un piccolo museo memoriale. Ci sono fotografie, ma anche ritratti di volti bambini, una maglia a brandelli, i manifesti dell’epoca che invitavano a denunciare i ribelli. I ragazzi entrano a piccoli gruppi, non c’è bisogno di invitarli al silenzio perché la commozione è palpabile.
Fuori, accanto alla lapide con i nomi delle vittime, gli studenti cercano sul muro i segni dei proiettili, testimonianza tangibile di un orrore. «Non è questione di stare da una parte o dall’altra - ricorda il sindaco Menon -, ma ricordare cosa è accaduto significa anche ricordare cosa succede quando prevalgono la violenza e la sopraffazione, la storia e la memoria ce lo insegnano».
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